venerdì 20 febbraio 2009

[fantascienza] Il classico - Le belle figlie di Madama Doré (1964) di Giuseppe Pederiali (1937- )

I toni soffusi della malinconia e del rimpianto venano questo singolare racconto del dopobomba, fino al guizzo finale della speranza, che illumina il futuro del protagonista e dell'umanità: la luce dell'accettazione del proprio destino. Non una resa, e neppure un'adesione a un destino rifiutato fin lì; ma l'intimo convincimento che il rifiuto è superato, reso vano dagli eventi della vita. E che la vita - la vita biologica e la vita umana - sa riconfigurare le proprie priorità. Spesso a partire da cose piccole, apparentemente laterali, come il giocare dei bambini, che non conosce che il piacere immediato del gioco per sé stesso.

In poco più di una decina di pagine Pederiali presenta il mondo privato del suo protagonista, un poeta rimasto vedovo con una figlia ancora piccola, dopo un'imprecisata guerra che ha portato alla catastrofe atomica. E il mondo di questo dopobomba: che va ricostruendosi a fatica, dopo che gli uomini sono emersi dai rifugi antiatomici che hanno permesso di salvarne abbastanza per riprendere il cammino della civiltà. E' un mondo dove il disastro nucleare ha esatto il suo tributo: i sopravvissuti hanno subito tutti danni fisici, biologici e genetici che li rendono dei mostri secondo i canoni d'anteguerra e nostri (il racconto è del 1964, e gli effetti delle radiazioni non sono esattamente accurati :-)). Pederiali non descrive nulla, si limita ad alludere tra le righe con eleganza e circospezione, e soprattutto tra le battute di dialogo. Il racconto ruota tutto attorno al differente atteggiamento che hanno nei riguardi di questo evento il protagonista, i suoi due amici e la figlia Vittoria. La perdita della bellezza, che l'umanità ha perduto anche nel suo patrimonio artistico e architettonico che nessuno pare voler davvero ricostruire, come fosse per una sorta di pudore, è il tarlo psicologico che rode il protagonista, la sua via personale di rapportarsi alla guerra, il dramma con il quale rifiuta di scendere a patti e che gli sta distruggendo la vita: l'artista non può fare sconti neppure a sé stesso, pare dirci. Enrico, l'amico medico che sta collaborando a un esperimento che si pensa possa ridare all'umanità la sua integrità biologica reagisce con solido pragmatismo: se l'esperimento riuscirà, bene, e se no la vita andrà avanti e ci si rimboccherà le maniche: è un uomo del fare, che non minimizza le perdite, ma accetta che esse siano tali. Il terzo polo è quello di Tammaccaro: osservatore disincantato, analizza gli eventi con l'occhio dello studioso, e a un tempo con quelli dello scettico, disinteressato all'esito dell'esperimento perché tanto l'umanità è già passata oltre, e che sia quella "pura" o quella "mostruosa" ha poca rilevanza, poco o nulla cambia. E poi c'è Vittoria. La figlia bambina del poeta appare a prima vista come un memento di ciò che è accaduto (La parola piccola un tempo si accostava spesso alla parola graziosa parlando di bambine dice a un certo punto il padre), ma si verrà scoprendo che il suo punto di vista muto, inespresso e inconsapevole, in un certo qual modo è non solo quello più naturale, ma anche quello più logico. Alla notizia del fallimento dell'esperimento e caduta in tal modo l'ultima speranza il protagonista entra in quella che sembra una crisi irresolvibile e finale. Vagabonda per la città con la figlia, medita sul futuro per strane e sinistre allusioni; sarà la bambina, Vittoria, a indicare la semplice soluzione: incontrati dei bambini chiede al padre di poter giocare insieme a loro, e ottenuto il perplesso assenso li raggiunge. Sarà osservando quei giochi che il poeta capirà la semplice equazione: la perdita è sua, che vive ancora secondo le coordinate, psicologiche e culturali, del passato; per la figlia - per i figli - il mondo è nuovo e aperto. Quando la figlia lo raggiunge sudata per le corse e i giochi, avrà finalmente il coraggio di affrontare il durissimo passo di Biancaneve nel quale la strega interroga lo specchio...

Un racconto, per impostazione, classico della prima fantascienza italiana, quella che si riconobbe nella rivista Futuro: letterariamente raffinato, attento alle sfumature psicologiche e alla costruzione di personaggi credibili, a tutto tondo. Il limite di alcuni di quei racconti è che a volte parevano più delle allegorie che delle storie di fantascienza; altre volte scivolavano tout court in un lirismo agreste. Le belle figlie di Madama Doré può dare l'impressione di essere effettivamente una breve e fulminante allegoria sulla diversità e il nostro modo di rapportarci a essa; e tuttavia vi ritrovo perfettamente realizzata quella razionalizzazione degli elementi fantastici, in questo caso simbolici, che è il carattere determinante della fantascienza rispetto alla letteratura fantastica in genere.

Autore prolifico, Pederiali ha progressivamente abbandonata la fantascienza cui si era dedicato con una certa frequenza agli esordi, scrivendo in seguito romanzi e racconti genericamente fantastici, noir, gialli e mainstream. Il racconto fu pubblicato in origine sul numero 5 della rivista Futuro, e in seguito ristampato sulla rivista Gamma e poi nell'antologia Futuro della Nord che raccoglieva una selezione dei migliori racconti della rivista (qui l'ho riletto). Un'ultima ristampa è recente, sul n.43 della rivista Robot, seconda incarnazione.

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