lunedì 23 marzo 2009

Pane e libertà - Giuseppe Di Vittorio (sceneggiato tv di Alberto Negrin)


Luci e ombre. Forse, nel complesso, più ombre che luci nello sceneggiato in due puntate diretto da Negrin; pure, sarebbe un peccato farsi condizionare solo dagli aspetti meno convincenti, o addirittura negativi: nella sua imperfezione è un'opera comunque importante, e per certi aspetti perfino coraggiosa. E sarebbe stato un peccato non vederlo.

le luci, allora. Intanto la recitazione: e visto che si tratta di un'opera cinematografica, nel senso lato applicabile alla televisione, non è certo aspetto secondario. Da anni e anni ormai divenuti decenni, il livello della recitazione nelle opere televisive italiane era scaduto fino a livelli canini. Qui no. Il Giuseppe Di Vittorio di Pierfrancesco Favino è intenso e perfino credibile, e si giova di un'interpretazione sensibile quanto vigorosa dell'attore, che riesce a bypassare anche le - troppe - cadute nella retorica della sceneggiatura. Bellissima sorpresa il ritratto di Bruno Buozzi fornito da un Francesco Salvi maturo e misurato quanto umano e commovente. E in genere tutto il cast è stato un buon due spanne sopra tutta la fiction italiana che mi sia capitato di vedere o anche solo occhieggiare quanto meno da un paio di lustri a questa parte. Tra le luci rientra naturalmente l'idea stessa di fare un film su Di Vittorio. L'agiografia non è stata evitata in toto, questo no, e anzi lo sceneggiato ricostruisce una sorta di vero e proprio santino del padre nobile del sindacalismo italiano, componendone la storia della vita più attraverso lo scandire di momenti e fatti decisivi che non attraverso un approfondimento reale delle lotte e del pensiero. E tuttavia l'aver mandato in onda su Rai Uno un film positivo sul sindacato, e su un sindacalista che ha lottato (uscendone per altro sconfitto) per l'unità sindacale, in un momento come quello che stiamo vivendo, è notevole. Laddove oggi osserviamo il disfacimento finale di un sindacato che pare aver completamente sovvertito la propria missione originaria e smarrita la propria identità costitutiva, e laddove una strategia non secondaria - e non da oggi - delle forze politiche è quella di frammentare in ogni modo la rappresentanza sindacale in modo da poter indebolire tutti i lavoratori - laddove oggi accade questo, mostrare sul canale ecumenico per eccellenza della tv di stato una storia che veicola, in modo forte e deciso, il concetto che senza unità del mondo del lavoro la sconfitta è inevitabile, è un atto comunque di coraggio: anche se poi non si scava più di tanto in profondità e non si sfugge a una qualche oleografia. Da essa oleografia si risollevano gli schizzi, più o meno corposi, di Togliatti, De Gasperi e Scelba, dei quali, e soprattutto del primo, non vengono risparmiati gli aspetti negativi e le doppiezze. Oggi è forse fin troppo facile, ma la riflessione impostata sugli errori del comunismo togliattiano rischiara molto gli avvenimenti successivi della nostra storia fino agli anni '90, ed è utile perfino a una interpretazione degli errori più recenti della sinistra. O meglio della "sinistra".

Meno riuscita, come anticipavo, l'operazione di inserire realmente la figura e la lotta di Di Vittorio nel contesto storico degli anni che vanno da prima della I Guerra mondiale fino alla sua morte nel 1957. La frammentazione narrativa, il bozzettismo che a volte prende il sopravvento, e l'ormai sclerotizzato vizio e vezzo della tv italiana a comporre santini, impediscono una reale disamina analitica complessiva sull'azione di quel movimento sindacale che ha davvero mutato volto ai rapporti interni alla strutturazione del mondo del lavoro, e che in ultima analisi ha potentemente contribuito a far entrare l'Italia nel mondo civile. Azione che oggi va vanificandosi; per cui anche un santino imperfetto può, imperfettamente, contribuire, se stimoli la curiosità e il desiderio di informarsi: il film evidenzia la lotta di Di Vittorio per la centralità dell'educazione - e quindi dell'informazione - per l'affermarsi di una coscienza critica individuale e sociale. E fa rabbia che oggi, che la possibilità di conoscere e informarsi è massima, ci sia troppo spesso un rifiuto noncurante di questa istanza vitale.

Dà infine fastidio davvero, tra le ombre, questa inutile falsificazione storica: http://www.carmillaonline.com/archives/2009/03/002977.html. Pur con tutto questo, si è trattato di un'opera che nel complesso non posso non valutare positivamente. Sotto il profilo squisitamente filmico, soprattutto. Ma senza dimenticare l'utilità che può rappresentare a livello di riflessione critica. E ancor più non sottovalutandone un certo coraggio dopo anni e anni di ciarpame ideologico ed estetico su santi, preti e papi assortiti.

sabato 14 marzo 2009

[fantascienza] I contemporanei - Specchi irriflessi (The Tain - 2002) di China Miéville (1972- )


Pubblicato su Intercom: http://www.intercom-sf.com/modules.php?name=News&file=article&sid=447"

Affermatosi con la monumentale trilogia fantastica di New Crobuzon, iniziata con Perdido Street Station, lo scrittore inglese China Miéville è ormai uno dei più noti autori britannici del settore. La lunga novella Specchi irriflessi fu pubblicata in origine in volume, e in seguito antologizzata da Pete Crowther nel corposo volume Cities, poi tradotto in Italia per Fanucci come Le città del futuro. Miéville si conferma qui scrittore stilisticamente elegante e ricercato, interessato a una narrativa che coniughi un forte impegno sociale e politico con una qualità letteraria molto elevata (peccato che il volume Fanucci presenti più di un errore di stampa che salta all'occhio), e con il recupero degli stilemi di una letteratura di gusto barocco e immaginifico: Miéville cita tra le sue fonti ispirative privilegiate Lovecraft. Non è dunque casuale né leziosa la frase di Borges posta a chiusura della novella e dalla quale l'autore trae il nucleo narrativo della vicenda, la figura messianica del Pesce dello Specchio, mito inventato e letterario che si fa paradigma mitico del riscatto dall'oppressione e della santità della vendetta, presagio di un ciclo che sembra non potersi spezzare. Né è casuale o fuori luogo la citazione lovecraftiana che vi si accompagna e che sottolinea e dà forma alla cifra onirica e a tratti delirante della novella.

Una Londra spettrale e diroccata è il "personaggio" di maggior rilievo stilistico, giustificando appieno l'inclusione della novella nella galleria di visioni urbane future raccolte da Crowther. Una Londra distrutta da un'invasione più che aliena. Non sono extraterrestri gli esseri che si sono avventati contro l'umanità senza concedere quartiere né mostrare pietà. Gli Imago sono creature più che aliene, dicevo, eppure incredibilmente vicine e consustanziali a noi: i nostri riflessi, come dice infatti il loro nome. Sin dalle epoche antiche le superfici riflettenti (acqua, pietre e metalli levigati, gioielli, vetro e infine specchi) erano le trappole che costringevano tali creature a mimare l'universo dell'uomo: gli oggetti, gli animali, e soprattutto gli esseri umani. A mimarlo con dolore: assumere fattezze umane, o comunque essere forzati a costruire l'immagine riflessa del mondo umano, costringere la propria sostanza informe e multiforme nella fissità della forma, è per gli Imago fonte di dolore, fisico e spirituale. E' una prigionia alla quale si finisce per rassegnarsi, sfruttando ogni minimo interstizio per avere sollievo, ma la cui natura non si può sfuggire: essere alla merce' dell'altro. Pochissimi gli Imago che nel corso della storia umana sono sfuggiti al loro destino, e forse solo per incontrarne uno altrettanto doloroso; taluni di loro, casualmente, riuscivano ad "attraversare lo specchio", finendo con l'uccidere l'essere umano che stavano riflettendo, ma venendo condannati a vivere in eterno con quelle fattezze, senza più poter assumere la forma desiderata di volta in volta, vagabondando in un mondo per loro alieno, ma al quale forzatamente faranno l'abitudine: sono i Vampiri; sono le creature che hanno originato il mito del vampiro. Avanguardia dell'invasione e spie del loro popolo pur ormai tagliati fuori dall'essenza del loro popolo.

Miéville fornisce una spiegazione pseudoscientifica dell'esistenza degli Imago e del modo in cui le creature arrivano a liberarsi, il che qualifica certamente Specchi irriflessi come fantascienza; tuttavia non è difficile vedervi un'ibridazione fortissima con atmosfere e linguaggio di un realismo magico magnificamente adattato agli scenari londinesi e gli echi altrettanto forti di quella congerie letteraria dei primi decenni del '900 che ebbe il suo centro principale negli scrittori più rappresentativi della rivista Weird Tales. Sebbene dunque l'autore peschi le proprie fonti a piene mani anche fuori della tradizione del Regno Unito (e sia in più fortemente critico verso la fantasy di matrice tolkieniana), egli si inscrive bene nel solco della fantascienza più umanista che in genere caratterizza la sf britannica. Miéville intesse dunque una simbologia stratificata sul tema del doppio, che si complessifica abbandonando rapidamente la radice stevensoniana del doppio malvagio e arricchendosi di richiami politici e suggestioni sociali. Gli Imago sono molto più che un doppio dell'uomo: sono una parabola della sua storia e del suo modo di essere. Popolo oppresso che vive un'attesa messianica, che si sfrena nella vendetta a lungo sognata; popolo invisibile: gli Imago sono quell'umanità che soffre e di cui, letteralmente, gli altri uomini non si accorgono; ignorando il loro dolore e la loro stessa esistenza. Né, soprattutto, gli altri uomini hanno la minima coscienza di essere causa di quel dolore e di quell'oppressione. Riflesso ignorato e misconosciuto della nostra umanità e della nostra civiltà, che si nasconde negli anfratti della storia dei vincitori per esplodere in una rivoluzione vittoriosa. E' il registro più politico di Miéville a emergere nelle sequenze incentrate sulla storia e la cultura Imago, sconfinando nell'intensità di un genuino lirismo, e facendomi escludere una ulteriore lettura psicanalitica degli Imago come la parte più istintuale e repressa della nostra coscienza, sempre a rischio di attraversare il limite e liberarsi dalle regole sociali.

La novella si snoda in un controcanto a due voci. La descrizione delle vicende di Sholl - l'uomo che né Imago né Vampiri sembrano poter toccare, e che sembra essere l'Eletto a poter parlamentare con essi - è alternata alle riflessioni dell'io narrante di un vampiro anonimo, il solo che sembri poter toccare Sholl (di nuovo un legame a doppio filo, e non è a caso come si vede nel finale). Sullo sfondo di Londra, desolato di rovine e di scontri sanguinari tra uomini sempre più vinti e Imago sempre più trionfanti, fino alla noncuranza, Sholl e il vampiro raccontano dalle due ottiche, opposte eppure tanto simili nella comunanza del dolore, la storia di un confronto e di una guerra che affonda le proprie radici nella leggenda dell'Imperatore Giallo che imprigionò gli Imago con l'inganno, e della promessa dell'avvento del Pesce dello Specchio che avrebbe riscattato il suo popolo. Fino alla conclusione, che sembra chiudere il cerchio lì dove era iniziato.

martedì 3 marzo 2009

[fantascienza] Il classico - I Custodi (The Custodians - 1975) di Richard Cowper (1926-2002)




Il male viene dall'azione o dall'inazione? E se invece fosse indifferentemente il risultato tanto dell'azione come dell'inazione? Tale dilemma è il legato finale di questa novelletta; seppure, forse, l'autore si spinge più in là, riconoscendo con semplicità che il male è connaturato all'uomo - all'homo socialis. E' una conclusione amara, in linea con l'evoluzione della fantascienza dopo l'ottimismo che la caratterizzò nei primi decenni della sua storia, e una conclusione forse narrativamente inevitabile per innalzare il livello drammatico del racconto; ma nonostante la forza con cui l'autore la sbatte in faccia al lettore nel finale, non è il tema portante del racconto stesso. Di certo, è accuratamente preparata.

Edito in origine sulla rivista Fantasy&Science Fiction, I Custodi è pubblicato in Italia nel 1977 sul terzo Robot Speciale, Il Pianeta dei Venti, che traduceva quasi integralmente la raccolta dei migliori racconti dell'anno 1975 curata da Don Wollheim, e non è più stato ristampato a parte che nella Raccolta Robot n.9. Il racconto fonde insieme le suggestioni di alcuni dei principali topoi della fantascienza e del fantastico in genere: la previsione del futuro; il sapere come pericolo e opportunità; le conoscenze iniziatiche che provengono dal passato antico; la teoria del complotto (anche quando a fin di bene). In più, l'incertezza, fino al pessimismo conclamato, sul futuro dell'umanità che è cifra tematica che appartiene a gran parte della migliore fantascienza dagli anni '50 fino agli anni '80. Grazie a uno stile raffinato ma senza leziosità, e a un linguaggio ricco ed elaborato che perviene a tratti a squarci di bel lirismo, i temi del racconto si amalgamano con coerenza e naturalezza, risultando in una lettura affascinante e che fa presa sulle emozioni e la coscienza del lettore.

L'orizzonte temporale della novelletta spazia per oltre sette secoli, dipanandosi in tre momenti: in pieno medioevo; dopo la prima guerra mondiale; e nel 1981 (che all'epoca in cui fu scritto il racconto era di là da venire). Al nucleo tematico del racconto vi è il ritrovamento da parte del mistico medievale Meister Sternwärts delle conoscenze che avevano permesso ad Apollonio di Tiana di prevedere il futuro con estrema precisione. Un argomento che appare molto mysterioso (nel senso di Martin Mystére, il personaggio della Sergio Bonelli Editore: http://www.sergiobonellieditore.it/auto/cpers_index?pers=martin), ma al di là della razionalizzazione pseudoscientifica che viene fornita verso la fine del racconto, è la ben materiale connotazione delle implicazioni filosofiche, etiche, sociali e conoscitive a caratterizzare in senso propriamente fantascientifico la storia, che poco o nulla ha dell'avventura e dell'archeologia misteriosa (o mysteriosa). La prosa elegante dell'autore dà così vita a un racconto sofferto, che si distende in descrizioni fin liriche per farsi poi aspro nel lavorìo mentale e nelle angustie finali del protagonista Spindrift. Ultimo dei "Custodi" succedutisi a Sternwärts nella tutela del segreto e nell'esplorazione e trascrizione delle vicende future dell'umanità, questi è un personaggio tormentato, di cui è ben mostrato il travaglio interiore che lo paralizza e lo conduce all'inazione, alla scelta di non proseguire egli lungo la strada iniziata da Sternwärts, di non progredire dalla visione del futuro in possibilità di plasmare il futuro. Quis custodiet ipsos custodes? è il monito che blocca Spindrift: a un male certo preferisce l'incertezza; ma perverrà infine alla consapevolezza che di incertezza non si trattava affatto? Accanto a Spindrift prendono vita in rapidi, efficacissimi abbozzi, altre figure, che forniscono al protagonista il contraltare alle proprie riflessioni, e mettono in mostra i pregi letterari dell'autore.

Diversamente che in patria, dove è stato un autore di buon successo, "Richard Cowper", pseudonimo utilizzato dal britannico John Middleton Murry jr. lungo l'arco della sua carriera fantascientifica, è poco noto in Italia. Nel nostro paese, oltre al suo romanzo più famoso, Il tramonto di Briareo, è giunto solo un altro smilzo romanzo e tre o quattro racconti. Un peccato, a giudicare da quello di suo chè è stato pubblicato. Sebbene non prolificissimo, tra l'inizio degli anni '60 e il 1986, quando smise di scrivere, ha prodotto un corpus discretamente nutrito di opere.