sabato 15 agosto 2009

[fantascienza] Il classico - Juggernaut (id. 1944) di Alfred E. van Vogt (1912-2000)



Non più ristampato in Italia da oltre vent'anni, Juggernaut è un titolo atipico nella produzione di Alfred Elton van Vogt, e un classicissimo racconto della sua epoca. La sua prima pubblicazione italiana data al 1978, quando apparve sul Robot Speciale n.9, che conteneva la traduzione dell'antologia The Best of Alfred E. van Vogt.

Racconto classicissimo perché impostato su una soluzione narrativa basilare della fantascienza dell'epoca (e non solo): il gadget. Il meccanismo, la cosa, l'aggeggio insomma che opera il cambiamento motore della storia (o che rappresenta la sfida, la minaccia ecc. da affrontare o risolvere). Nello specifico un superacciaio indeformabile e inscalfibile da nessun materiale o tecnologia in possesso degli uomini.

Atipico nella produzione vanvogtiana perché privo di complicazioni :-). Tra le altre definizioni, e un po' semplicisticamente, AEvV è infatti descritto come lo "scrittore della complicazione": l'autore canadese di nascita imbastiva generalmente trame aggrovigliate come matasse non districabili, amatissime dai lettori, perché come pochi sapeva essere avvincente e trasportarli davvero in mondi alieni e dentro avventure scandite a ritmi folli e sovraeccitati. Senza limiti di fantasia. In quei voli pindarici di una fantasia così sbrigliata che il visionario Dick lo sentì come un precursore o un fratello maggiore in spirito. Senza vergogna di spararle enormi, si potrebbe dire :-). Nell'accusa mossagli da Damon Knight di non essere un gigante del genere ma un pigmeo che usava una gigantesca macchina da scrivere c'è del vero, però Knight era un intellettuale, mentre le storie di van Vogt sono per i puri e semplici di cuore (in senso positivo, eh!).

Juggernaut è invece un breve racconto lineare, con un inizio chiaro, uno svolgimento altrettanto lineare e una conclusione logica e conseguente. Con una punta di civetteria letteraria e di sottigliezza stilistica van Vogt sottolinea più di una volta come i nomi dei personaggi e in definitiva i personaggi stessi siano puri meccanismi narrativi, necessari alla storia ma ininfluenti singolarmente e perfettamente fungibili. La gran parte degli autori di fantascienza degli anni '30 e '40 è sempre stata accusata di scrivere storie con personaggi privi di un qualunque spessore o personalità o tridimensionalità umana. AEvV si toglie lo sfizio di evidenziare come tali caratteristiche fossero assenti perché narrativamente superflue, e perfino negative, nell'ambito del genere - oltre che perché la gran parte degli autori del periodo erano obiettivamente degli scrittori quanto meno rozzi ;-). Van Vogt stesso non era davvero un ricercato stilista, e Juggernaut conferma la cosa: il periodare è a volte faticoso e involuto, e la narrazione di sicuro non brilla per scioltezza della lingua e ricerca di eleganti soluzioni stilistiche (fatta la tara alla traduzione, naturalmente). Racconto atipico anche perché assente quell'emotività a tutti i costi, quella ricerca di sentimenti esplosivi sulla pagina che è un'importante cifra stilistica dell'autore, sicuro retaggio della gavetta fatta come scrittore di racconti "rosa". Una volta superato il bizzarro incipit (che torna nel finale, a suggerire una qualche risposta metafisica agli eventi), il racconto si fa piano e calmo, procede in modo quasi inesorabile fino alla sua conclusione: il superacciaio, che pareva una benedizione dal cielo per una nazione in guerra, sembra mutarsi in una catastrofe, una peste dei metalli e dei minerali tutti, per poi... Per poi porsi nuovamente alle coscienze umane, come interrogativo: una catastrofe benedetta?


C'è, in Juggernaut, un cautelosissimo ottimismo che contempera lo slancio fiducioso della (fanta)scienza del periodo con la cupezza del tempo di guerra. C'è, soprattutto, una tensione utopica che si disvela nel finale. E' questa tensione, oltre alla semplicità e linearità del racconto, e al fascino della storia, certamente ingenuo, che oggi appare deliziosamente vintage e un tempo era avveniristico, a dar corpo al racconto. E' questa tensione utopica, che si concreta nel richiamo metafisico finale cui accennavo, il residuo della grandiosità - onirica, linguistica e quantitativa - vanvogtiana. Residuo che van Vogt inserisce controllatamente nel racconto conferendogli quel di più che giustifica il suo inserimento in una antologia del The Best. Un racconto che diversamente apparirebbe come più consono a un Hal Clement (ma certo non scritto con il rigore scientifico di Clement: la chimica e la fisica di van Vogt sono un tantino approssimative ;-)). In tal modo torna invece a mostrarcisi come genuinamente vanvogtiano, grazie a uno spiraglio su quel fascino psichedelico (e un po' anche primordiale) che caratterizza i suoi lavori più fantastici - e riusciti.

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