venerdì 14 agosto 2009

Una terra dai moltissimi colori: Denti bianchi, di Zadie Smith (1975- )

Un libro troppo splendido perché la fantascienza
non ceda il passo una seconda volta.




Ci sono libri che affascinano. E questo è banale. Ma ogni libro affascina in un modo che è suo, unico. Anche se certe familiarità tra l'uno e l'altro è possibile rintracciarle; è possibile riunire in gruppi questi libri affascinanti. Denti bianchi appartiene alla famiglia allargata di quelli che ti trascinano all'interno delle proprie storie stordendoti di colori, di voci, di suoni, di rumori, di odori, di personaggi. Di vita vitale e vissuta; di parole che sfuggono e si rincorrono sulla pagina, a comporre un linguaggio che ipnotizza il lettore e lo fa voltare di qua e di là sulle tracce dei mille rivoli in cui la storia e i suoi personaggi si frangono e sciolgono per ricompattarsi e consolidarsi quindi.

E poi c'è l'impronta individuale di ciascun libro. Denti bianchi ha una leggerezza che incanta la lettura. Una leggerezza che gli è propria sia quando l'autrice affronta argomenti peculiarmente leggeri, sia quando incide la carne viva dei suoi personaggi per farli sanguinare e soffrire per bene. Una leggerezza che nasce da una lingua che, pur mediata dalla traduzione, si riesce a intuire vivace e anarchica non meno che controllatissima e padroneggiata da vera maestra (meno errori tipografici sarebbero stati apprezzati; grazie editore italiano). Che nasce da un'attitudine mentale all'azione figlia di una precarietà vissuta come spinta e stimolo: non per scelta, ma per l'inevitabile meccanismo della vita.

Un contenuto autobiografico è evidente nel romanzo, ma non è pedissequo. Il personaggio di Irie, figlia di un uomo inglese e una donna jamaicana, come è la Smith, è tra quelli principali, ma non il solo. E' l'intero ambiente umano, familiare e sociale, di Irie a essere il protagonista del romanzo. Irie, come gli altri in primo piano, è una delle articolazioni di questo grande affresco londinese, di questa epica tra omerica e aristofanesca di un'immigrazione che è il legato ultimo (e, chissà, migliore) dell'ex impero. E' questo il dato autobiografico decisivo: questa perfetta ricostruzione di un tempo, dei luoghi, dei suoi uomini e donne: in ultima analisi la realtà è ciò che percepiamo, e l'interpretazione che diamo delle nostre percezioni è la nostra biografia: emozionale, sentimentale, e razionale. E ricostruzione minuziosa di una storia familiare - anzi di storie familiari - che impregnano e avvelenano il presente e il futuro dei personaggi. La condanna e la benedizione di una coazione a ripetere: condanna alla sofferenza; benedizione di uno slancio vitale che si replica indefinitivamente.

Affresco di uomini e donne e dei loro conflitti. Conflitti tra loro, feroci; e molto più devastanti dentro di loro. Conflitti che non impediscono loro di vivere la vita con gioia, anch'essa feroce, e con una determinazione pari solo alla confusione che vivono nelle loro teste, nelle anime e nei cuori, e che si riflette su esistenze che disperatamente aspirano a una stabilità, e altrettanto disperatamente giungono a una stabile precarietà, fonte di guai, dolori e irruenza vitale. Denti bianchi è un quadro fauve dove colori violenti si organizzano in anarchico ordine; l'ossimoro è la miglior chiave interpretativa per un romanzo che nutre le contrapposizioni della vita, e si nutre dei conflitti che la vita genera dalla contrapposizione delle irriducibili (quanto sciocche) differenze che gli esseri umani hanno creato per fornirsi di identità culturali - cioè psichiche - che dessero loro l'illusione di esseri migliori dei vicini che ne avevano altre. Gli uomini e le donne del romanzo combattono duramente per non perdere sé stessi, per non lasciare che i figli si perdano, per non perdere un'identità che dovrebbe proteggerli dalla durezza della vita, dall'ignoto che è rappresentato dall'Altro, dalla corruzione morale che l'Altro rappresenta. Alcuni lo fanno abbandonandosi alla follia o alla disperazione; altri usando di un'ironia anche crudele oppure di una lucidità e di un cinismo che nascondono le ferite sotto la forza che deriva dall'ispessimento del carattere causato da quelle ferite. Altri ancora si rifugiano nelle certezze di nevrosi compulsive che sconfinano nella psicosi. Ancora altri, infine, attraversano tutti gli stadi per approdare con fatica immane a quella stabile precarietà che riaprirà indubbiamente le danze alla generazione successiva.

Questa ribollente temperie nasce dall'accuratezza con la quale Zadie Smith fa agire i suoi personaggi, ma soprattutto dalla profondità e complessità dei ritratti che ne fa. Alsana Iqbal e suo marito Samad che lottano palmo a palmo per i loro due figli, i gemelli Millat e Magid, e per trovare un proprio posto nella vita e nella nuova non-patria in cui sono giunti dal natio Bangladesh. I gemelli che a loro volta lottano palmo a palmo con i genitori, tra loro e con sé stessi per giungere da qualche parte, per affermare e giustificare la propria esistenza all'interno di coordinate psicologiche, culturali e geografiche che non sono più quelle oppressive ma rassicuranti di un tempo. Gli Iqbal sono una cittadella assediata dalle forze disintegratrici di una globalizzazione culturale in grado di ridurre in pietrisco le mura solide di antichi conformismi, modi di essere e pensare, modi di credere; ma che non è in grado di governare la forza con cui quel pietrisco polverizzato si abbatte sulle fragili strutture che ha appena iniziato a edificare. La cittadella-Iqbal è quindi sottoposta alla pressione di questa forza, che crea al suo interno vortici centrifughi che mettono tutti contro tutti. In questo continuo eruttare emotività e drammi naufragano la scettica saggezza femminile di Alsana come l'iniziale intelligenza di Samad, l'orizzonte razionale di Magid come il ribellismo istintivo e sensuale di Millat. Irie Jones deve combattere ogni giorno la vita con la sola arma della sua intelligenza, barcamenarsi tra l'eredità di una fortissima linea matriarcale materna, le donne Bowden che non a caso per generazioni si trasmettono il nome e diluiscono il sangue paterno; eredità radicata nella e poi sradicata dalla Jamaica; un'eredità inevitabilmente meticcia nella psiche degli individui, come è delle società ex schiavili, e altrettanto inevitabilmente caratterizzata dalla propria ricerca/rifiuto di un'identità "nera"; deve barcamenarsi tra questa eredità, lascito di una bisnonna che i casi della vita hanno condotto nel seno della comunità dei Testimoni di Geova, perpetuatosi attraverso l'entusiastica adesione della nonna Hortense al credo religioso e l'inevitabile rifiuto di esso da parte della madre Clara, fino a lei, confusa ma saggia figlia di una modernità confondente ma saggia; tra questa eredità e un padre inglese, Archie Jones, discendente dei colonizzatori e padroni come lo era il bisnonno, un uomo semplice e fondamentalmente buono, che fondamentalmente attraversa la vita senza comprenderla, limitandosi a viverla. Un padre forse in linea con l'assenza di figure maschili di rilievo nella storia della famiglia Bowden (ma il personaggio è tutt'altro che privo di rilievo: ne esce il formidabile ritratto, anche affettuoso, di un uomo di poche qualità), ma la cui eredità genetica condiziona per forza la vita di Irie, così come quella del bisnonno era arrivata almeno fino alla madre di Irie. I Chalfen, middle-upper class, Marcus, Joyce e quattro figli, Joshua è quello che occupa spazio importante nella storia. Inglesi, inglesissimi, tè e giardinaggio: ovvero Marcus discendente di ebrei polacchi, immigrati da tre generazioni. Razionalità scientifica, ma ignoranza completa del mondo; la psicanalisi come interfaccia con la vita, come weltanschauung, e la matematica conseguenza di una psicosi collettiva, di una psicosi familiare che imbozzola i Chalfen nella loro condanna a essere Chalfen. La felicità come condanna esistenziale, non conquista faticosa, non come equilibrio. Zadie Smith ne fa tuttavia un ritratto scevro da ogni stereotipo. La "follia" dei Chalfen ha risvolti positivi: non esclude la capacità di influire positivamente sugli altri: Irie e Magid, e a tratti perfino Millat, non essendo parte dalla nascita della famiglia ne sono beneficiati nella loro ricerca di un equilibrio. Nella prevenzione razionalizzante di ogni possibile conflitto, la famiglia Chalfen può fallire, ma nel suo complesso il modello che offre, un modello collaborativo, suggerisce un discorso che orecchie sensate, come quelle di Irie, finiscono per cogliere; magari confusamente, ma sentitamente. Fallisce miseramente laddove, come ogni meccanismo a orologeria, un granello di sabbia si insinua al suo interno, rivelando la sua natura costrittiva: perché anche l'amore più ben diretto, unito al controllo e alla programmazione ossessivi, diventa una gabbia insopportabile, come ha mostrato James Ballard in Un gioco da bambini. Fallisce con Joshua quando l'adolescente scopre davvero il richiamo dell'amore e del sesso, approdando a una rivolta radicale e totalizzante contro il padre e l'intero modello Chalfen.


La Smith muove i suoi personaggi facendoli interagire all'interno del proprio gruppo e tra gruppi, creando le linee di tensione e le linee di sutura da cui scaturiscono i confronti, i conflitti, i drammi; e le linee di condotta, le rivelazioni, le gioie. Linee di sutura come la bizzarra e ferrea amicizia tra Archie e Samad, nata negli ultimi giorni di guerra, che collega in un improbabile alleanza due universi apparentemente inconciliabili che si uniscono nella quotidianità. Linee di sutura e di tensione tra Alsana e Clara, che si ritrovano amiche per caso e per forza. Linee di sutura e di tensione tra Irie e Millat, tra Irie e Joshua; scandite nel primo caso dal crescere fianco a fianco e dall'entrare fianco a fianco nel turbine dell'adolescenza; nel secondo caso dalla ricerca confusa e laboriosa di una propria collocazione nella vita. Linee di sutura e tensione tra Marcus e Irie, tra un'adolescente che vede un modello, e un modello che si sottrae. Linee di sutura tra Marcus e Magid, mentore e allievo. Linee di tensione tra Millat e Magid, tra Millat e Samad, tra Samad e Alsana. E tra Samad e Alsana una sutura che si ricompone e si apre di continuo. Sutura e tensione tra Clara e Archie. Sutura, e rottura, tra Clara e Hortense; a riavvicinare i labbri della ferita, senza riuscirvi fino in fondo, Irie. Feroci linee di tensione tra Alsana e Clara da un lato, Marcus e Joyce dall'altro. Disperata ricerca di una sutura con tutti e tra tutti da parte di Joyce. Una commedia umana lussureggiante, nella quale si inseriscono numerosi altri personaggi, meno presenti e meno complessi, ma spesso non meno interessanti, e che completano una visione d'insieme, come dicevo, stordente. Una rappresentazione della vita nel suo svolgersi.

Cornice e contenitore, una Londra che appare lontanissima da quella letteraria degli scrittori britannici di cinquanta, cento anni fa o più; ma che è la metropoli meticcia e cosmopolita dei nostri giorni, come e più di New York; come solo le capitali autenticamente imperiali sono state e sono. Un crogiuolo dove si vanno fondendo e confondendo uomini e idiomi, attraverso i cui conflitti scaturirà un'umanità che sarà più e meno della somma delle sue componenti. Denti bianchi è un inno a questa sfinita umanità sempre pronta a ripartire e rinnovarsi. Eterno, flessibile, adattabile, immutabile Homo sapiens.

4 commenti:

Muasie ha detto...

Beh, direi che anche questo è un ottimo e bene augurante inizio. :-)

Gran bella lettura, mon ami. Intrigante assai. Pare proprio che ci sia da recuperare. Sì, sì ;-)

Vincenzo Oliva ha detto...

Eh sì. Io comincerò con il recuperare gli altri due romanzi della Zadie :-)

V.

Sanuki Ayaka ha detto...

Lovelly blog you have

Sanuki Ayaka ha detto...

Thaanks for writing this