lunedì 28 settembre 2009

[fantascienza] Il classico - Le auree mele del Sole (The golden apples of the Sun - 1953) di Ray Bradbury (1920 - )

I libri donano piacere a chi li ama. A leggerli. A guardarli, anche. Alcuni a soppesarli in mano, leggeri con copertine lucide, fresche; o alle volte solidi, spessi, la copertina un po' ingiallita e ferita dal tempo, illustrazioni che testimoniano un gusto un po' passato, ma anche una sorta di calda e confortevole personalità del volume. E' il caso della storica edizione dello S.F.B.C. (Science Fiction Book Club) di una storica antologia braduryana, Le auree mele del sole. Alcuni libri acquistano vigore con il tempo; o più precisamente un sapore deciso e definito, come un vino che invecchia bene nella sua botte. E' di nuovo il caso di questo volume, stampato or sono quarantacinque anni, che talvolta riprendo in mano sfogliandone piano qualche pagina a caso, invecchiata e ammantata da quella patina di incanto anacronistico che hanno le vecchie storie di fantascienza; leggendo qui e là qualche riga. Ieri mi sono soffermato qualche secondo di più, e ho preso a rileggere l'ultimo racconto del volume, quello che gli dà il titolo. Appartiene, il racconto come l'antologia, al periodo del maggior fulgore di Bradbury, tra la metà degli anni '40 e la metà dei '50 del secolo scorso.

Non credo di dover presentare l'autore. Ancora oggi credo che sia, come sottolineava anche allora il prefatore del volume, l'autore di fantascienza più noto al di fuori dell'ambito dei fan della fantascienza; e questa è forse una delle cause per le quali, tra costoro, Ray Bradbury è probabilmente più famigerato che famoso: Bradbury si emancipò rapidamente dal mercato delle riviste di settore, povero di compensi e inevitabilmente spesso di bocca buona, scrivendo copiosamente per le pubblicazioni più prestigiose degli Stati Uniti, dal New Yorker a Collier's a, in seguito, Playboy (ma questo racconto, l'oracolo della fantascienza italica Vegetti lo dà pubblicato in origine su Planet Stories, rivista pulp quanto altre mai); e questo per i fan è tradimento. Del resto, i fan sono quei bizzarri individui per i quali l'universo coincide con la loro ossessione a senso unico, quindi trascurarne i furori è virtù ;-). Certo, loro - e con loro i colleghi di Bradbury - si sono vendicati: l'autore delle Cronache Marziane non ha vinto un premio Hugo o Nebula che sia uno; i colleghi lo hanno tuttavia onorato con quel titolo di Grand Master che la fama e le sue opere gli avevano meritato.

Un secondo più specifico e più sensato motivo di disagio per i fan è dato dalla natura della narrativa bradburyana, sempre al confine tra la fantascienza e una dimensione più libera, più liberamente fantastica. Sfugge a ogni facile catalogazione, e questo la rende scomoda, provoca sofferenza intellettuale al pensiero di non sapere se sia science fiction oppure fantasy - perfino horror. Al di fuori di scopi di mera catalogazione, anche questo aspetto può essere però accantonato con tranquillità: che sia l'una o l'altra, la sua lettura è un piacere che a volte sconfina nella pura sensualità.

Le auree mele del sole in questo è un racconto esemplare. C'è un'astronave piena di intrepidi astronauti, e questo è naturalmente molto fantascientifico. Tuttavia L'interesse di Bradbury per lo specifico fantascientifico è nullo, e del resto le sue descrizioni tecniche e scientifiche sono quanto meno fantasiose e servono ad affascinare e non certo a spiegare alcunché - Bradbury non è certo un uomo di scienza. Il breve racconto narra di una spedizione, nientemeno, verso la nostra stella, allo scopo di catturare l'essenza stessa del Sole: il suo fuoco eterno dove avviene la fusione atomica, Sacro Graal per un'umanità affamata di energia. Questo è tutto, e tutto quanto serve. Ciò che nelle mani di uno scrittore di sf ortodosso sarebbe un'impresa scientifica e tecnologica senza pari da descrivere, per Bradbury è materia scelta di invenzione squisitamente poetica. Space-opera che in qualche modo coinvolgano la realtà fisica del Sole o altra stella sono prevedibilmente poche, e può essere interessante confrontare questo racconto con Il Sole è abitato (1942) di Hal Clement, forse il più ortodosso degli scrittori di fantascienza hard, al cui confronto Arthur Clarke potrebbe sembrare un poeta filosofeggiante; il racconto di Clement è reperibile nella celebre Antologia Scolastica curata da Isaac Asimov (le ultime edizioni italiane sono state rititolate Dove da qui?, in modo più aderente al titolo originale). Le auree mele del sole è scritto nell'inconfondibile stile dell'età migliore di Bradbury, inconfondibile persino oltre la traduzione: le frasi, i vocaboli, le atmosfere bradburyane resistono al passaggio e restituiscono sempre una profonda impressione unitaria di amore smodato per la parola e per il narrare. Bradbury è sempre in primo luogo uno scrittore; uno scrittore innamorato del suo mestiere, che con costanza manipola, batte, assembla, cuce assieme aggettivi e verbi alla ricerca del risultato ogni volta esteticamente più soddisfacente. Un Narciso che vi si specchia dentro. A prima vista la sua scrittura può apparire superficiale, un puro esercizio di bello stile e ricercata letterarietà allo scopo di incantare il lettore come il proverbiale serpente ipnotizzato dalle movenze dell'incantatore. Tuttavia sarebbe questa a essere una letteratura superficiale. Tra una citazione colta e l'altra, a partire da quella programmatica di Yeats che ispirerà al capitano dell'astronave l'elegia in morte del suo primo ufficiale, Bretton, Bradbury pare farsi autenticamente poeta, nel senso antichissimo dei cantori creatori di miti. Come le sue migliori opere, Le auree mele del sole, è proprio questo: un mito: di cui ci viene mostrata la genesi. Bradbury prende nelle sue mani la punta più avanzata dell'immaginario avventuroso dell'epoca - il viaggio spaziale - per ricavarne, o meglio per forgiarne, una mitologia ad essa adatta. Confluiscono così in questa sorta di letteraria coppa alchemica, che rimanda a quella solare, le suggestioni della cerca del Graal; il senso prometeico della sfida all'indicibile - non più il dio olimpico, ma l'astro apportatore di luce e vita; la duplicità del viaggio di Odisseo - ricerca della conoscenza e tensione verso il nòstos, il ritorno alla propria casa. Per questo il suo capitano resta anonimo, anonimo declamatore di scheggie liriche che sembrano versi di epiche del passato: riassume in sé tutti coloro che l'hanno preceduto nella Ricerca, per mare o per terra, e per lo spazio (e coloro che a lui seguiranno). Bradbury ci riconduce in tal modo alle radici della letteratura occidentale; per questo il suo lirico fraseggiare non scade nella leziosità - a meno che l'ispirazione non faccia un sonnellino - e ci porta invece l'eco lontana di quelle antiche scaturigini. Per questo le frasi dell'ignoto capitano dell'astronave sfuggono al loro retorico abito palese per rivestirsi con sincerità di dignità poetica.

Un distillato di simboli leggendari e suggestioni verbali è quanto risulta dunque dall'assemblaggio che Bradbury fa dei materiali mitopoietici più antichi e più moderni di cui si serve allo scopo. La narrazione bradburyana ammalia il lettore anche lontano da quel magico rurale del suo natio Illinois. E' anche fantascienza? Con la fantascienza, in particolare quella sua coeva, condivide con certezza gran parte del corredo genetico: il senso del meraviglioso; la costruzione di storie che eccedono la realtà; l'immaginazione di una frontiera umana oltre i limiti del quotidiano; la sfida baldanzosa all'ignoto; il gusto di stupire il lettore con voli pindarici dell'immaginazione che veniva a tanti scrittori della generazione di Bradbury dalle letture fatte da ragazzi sulle riviste pulp. Forse per il fan non basta e addirittura è un tradimento; per me è sufficiente. E davvero io non sono un appassionato di fantasy :-).

sabato 19 settembre 2009

[fantascienza] Retrofuturo (1999) di Vittorio Curtoni (n.1949)

Un recupero d'annata: queste impressioni le scrissi di getto più di dieci anni fa, dopo la lettura del libro, e le postai sul newsgroup it.cultura.fantascienza; poco dopo Silvio Sosio mi invitò a pubblicarle su Delos: http://www.fantascienza.com/delos/delos45/retro2.html. Le ripropongo con un minimo di ripulitura.

Piacere, angoscia, dolore, felicità. Queste ed altre sensazioni si mescolano, si alternano, si scambiano le parti nella lettura di questo libro, uno dei più intensi che mi sia capitato di leggere. E un evento per la fantascienza italiana, dato che Vittorio Curtoni è così avaro dei suoi sogni ed incubi e distilla le sue storie col contagocce, quasi sadicamente. Del resto tutti i racconti di questa antologia tranne uno erano già stati pubblicati negli anni passati; quindi anche in questa occasione il nostro ci appare avaro della sua arte - perchè la scrittura di Curtoni e' arte: uno dei pochi autori di sf che mi diano questa sensazione. Ma un'antologia strutturata come lo è questa, con la presentazione cronologica dei racconti, accompagnati dalle riflessioni dell'autore a fare da tessuto connettivo, è di per sè una novità, permettendo di ripercorrere passo passo il cammino umano e artistico dell'autore, di coglierne l'evoluzione. Molti dei racconti, infatti, avevo già avuto occasione di leggerli; ad esempio i tre tratti dalla sua antologia La sindrome lunare di parecchi anni fa, all'epoca mal compresi, per inesperienza o per chissà quale motivo.

Rileggerli oggi, insieme agli altri, fornisce una nuova prospettiva e permette di cogliere il rigore e la dignità di ciascuno; e la coerenza del disegno d'insieme che da trent'anni Curtoni sta costruendo con i suoi sparsi racconti.

Un tema su tutti sembra percorrere quasi la totalità degli scritti raccolti: il Tempo, e la sua fedele compagna: la Memoria. Tempo che si rincorre, si confonde, si sfalda e si ricompatta. Curtoni attinge dal passato per parlarci del presente attraverso gli occhi del futuro, come nel racconto Il tempo dell'astronave, un vero e proprio manifesto sull'intrecciarsi dei tempi della memoria (oltre che riflessione sulle paure, le pigrizie, ma anche la dignità dell'umanità). Ma la prospettiva è cangiante, e dopo un attimo diventa l'uomo del futuro che ci parla del passato attraverso gli occhi del presente; come in uno dei racconti più belli della raccolta: La dignità della volpe, dove per un attimo, proprio il rigoroso Curtoni sembra arrendersi alla facile tentazione della retorica e del moralismo a buon mercato. Ma è solo un bagliore ingannevole. Con una brusca sterzata si riprende e ritrova intatta la sua lucidità e la sua voglia di incazzarsi (e lui per primo si definisce incazzogeno in una delle riflessioni che accompagnano la lettura dell'antologia). E la perdita della memoria, intesa come incapacità dell'uomo di conservare la cognizione della propria
umanità, abbandonandosi alla narcosi ed al conformismo dell'omologazione delle coscienze, è al centro de La sindrome lunare - a distanza di tanti anni, forse ancora il suo racconto più lucido e forte.

C'è una definizione che Stanislaw Lem coniò per Philip Dick, l'unico autore americano che egli stimasse: visionario tra i ciarlatani; ebbene credo che questa definizione si adatti perfettamente anche a Curtoni.

Molti altri temi sono poi presenti, e la struttura cronologica del libro permette di coglierne l'evoluzione con l'evolversi dell'uomo Curtoni; che accetta - attraverso le sue opere - di svelarsi completamente. Come in Dal rabbino, cronaca trasposta di una serata tra amici, ma nella quale Curtoni riversa tutta la forza della sua capacità di riflessione sui bisogni, le pulsioni, gli amori, le debolezze e i punti di forza dell'uomo. E la struttura cronologica ci mostra la crescita di Curtoni uomo: dalla violenza, verbale e concettuale, degli esordi - rappresentata da un racconto come L'esplosione del minotauro, che colpisce l'immaginazione con tutta la sua carica di violenza del rapporto irrisolto con la figura paterna; conflitto portato alle sue estreme conseguenze - alla rasserenata pacatezza degli ultimi racconti. Pacatezza che non vuol dire perdita della capacità di indignarsi; chè quella rimane sempre presente, ma piuttosto pacatezza verbale, dell'uomo che ha preso coscienza della finitezza dell'Uomo, senza rinunciare a denunciarla, questa finitezza. E senza rinunciare a far sentire - occasionalmente - tutta la forza degli esordi, come si vede nell'ultimo racconto, l'unico inedito: Ti vedo, la cui carica di violenza non e' certo inferiore a quel primo L'esplosione del minotauro, a chiudere simbolicamente il circolo del Tempo: con il presente che va a ricongiungersi col passato, per parlarci ancora una volta del nostro futuro. Ma solo fino alla prossima volta, quando i termini cambieranno di posto nuovamente...

E' tempo sicuramente che questo libro sia ristampato.

sabato 12 settembre 2009

[fantascienza] Il classico - Peter Kampf lo sapeva (Peter Kampf lo sabía) di Carlos Trillo (n.1943) e Domingo "Cacho" Mandrafina (n.1944)

Pubblicato su ubcfumetti: http://www.ubcfumetti.com/historietas/?15439


La satira è uno scudiscio sottile... o un colpo di maglio nello stomaco

"JOHN WAYNE FOR PRESIDENT" - 1953, una New York tappezzata di manifesti elettorali preludio all'elezione a presidente degli Stati Uniti di un attore fascista è il set nel quale Carlos Trillo ambienta una delle sue - e non solo sue - più belle storie di fantascienza a fumetti.

Negli anni in cui Trillo scrive Peter Kampf lo sapeva e Domingo Mandrafina ne disegna le tavole, gli elettori statunitensi eleggono alla presidenza Ronald Wilson Reagan. Una metafora ovvia, perfino banale; ma che la feroce narrazione a contorno di Trillo mantiene inalterata in tutta la sua abrasività.

Quarantasei pagine a fumetti, una vicenda densa all'inverosimile e compressa ai limiti, eppure sempre nitida e perfettamente chiara nell'intrecciarsi, dipanarsi e risovrapporsi dei piani narrativi, dei rimandi di genere e interni al fumetto. Le letture che possono darsi di questo breve capolavoro sono molteplici: tutte legittime, e probabilmente ancora più legittime se tenute contemporaneamente presenti.

Un "classico" della fantascienza

La storia alternativa è un genere nobile e antico della fantascienza, e un suo sottogenere tutto particolare e fecondo è rappresentato da quelle storie che ri-narrano le vicende legate al nazismo - che la guerra conosca un esito diverso o magari non abbia del tutto luogo, a causa in genere di un destino differente del fondatore del nazionalsocialismo.

Come nessun'altra formula, la satira in chiave fantascientifica dà corpo alle lezioni sempre ignorate della Storia.

Gli esiti letterari sono stati i più diversi, dall'abominevole Fatherland di Robert Harris all'affascinante e notissimo La svastica sul Sole di Philip K. Dick (per quanto si tratti di una delle rare opere sopravvalutate dell'autore); dal più recente, intenso e psicologicamente articolato La parte dell'Altro di Eric-Emmanuel Schmitt al duro, perfino sgradevole capolavoro di Norman Spinrad Il signore della svastica, opera quest'ultima, che nel presentare un Adolf Hitler romanziere in terra americana trova un punto di contatto con il fumetto di Trillo e Mandrafina, dove negli anni '20 Hitler è divenuto un autore di strip per i quotidiani USA.

La prima e più evidente chiave di lettura offerta è dunque questo esercizio di riscrittura della Storia. Esercizio sempre affascinante per i suoi risvolti psicologici, sociali e ancor più scenici, ma sempre a rischio di risolversi nella sterilità di un gioco fine a sé stesso. Rischio che Trillo evita senza sforzi, costruendo attorno all'assunto di base una ragnatela di analisi sociali, riflessioni metanarrative, sarcasmo acido e, perfino, un anelito di speranza.

Gli Stati Uniti reali del 1953, quelli della nostra linea temporale, vedono il convergere degli intenti di due personaggi, assurti a posizioni di grande potere nonostante si tratti di elementi caratteriali, personalità borderline, marginali: il direttore dell'FBI J. Edgar Hoover e il suo burattino, il senatore Joseph McCarthy; nell'America di Trillo un emigrato tedesco divenuto potente pubblicitario, Joseph Goebbels, mette le risorse della sua macchina propagandistica a disposizione di un reazionario attore hollywoodiano, John Wayne, nella scalata alla presidenza sull'onda di una campagna elettorale razzista all'estremo, al punto che Trillo e Mandrafina ne danno una rappresentazione caricaturale, traendo il massimo impatto drammatico della forza della caricatura. Chissà se sarebbe potuto succedere anche nella nostra linea temporale se Adolf Hitler non fosse stato il leader della Germania nazista e fosse invece divenuto un fumettista americano autore di una striscia dai contenuti violenti e razzisti.

Carlos Trillo

Anche Frederik Pohl e Cyril M. Kornbluth lo sapevano

Pubblicità/propaganda: il punto di contatto tra politica ed economia

Né Goebbels né i pubblicitari di Madison Avenue sono gli inventori delle falsificazioni a fini propagandistici; possono averle portate a un livello di scienza esatta, ma il principio per cui una menzogna ripetuta abbastanza volte si trasforma in verità è valido da millenni; così come i "poteri" della pubblicità sono disvelati in tutta la loro pericolosità nella feroce satira de I mercanti dello spazio che Frederik Pohl e Cyril M. Kornbluth pubblicano nello stesso anno in cui Trillo ambienta la sua opera. Il Goebbels di Trillo fa uso dei delirii antisemiti dell'oscuro fumettaro Adolf Hitler per trasformarlo in un profeta visionario. I disegni di Peter Kampf, il fumetto realizzato da Hitler nel 1928 vengono ritoccati per trasformare i "cattivi" con cui il protagonista si scontrava da ebrei, in neri e latini: Peter Kampf lo sapeva, e nel suo autore ormai morto si incarna l'Idea. I Goebbels non solo riscrivono la storia passata, ma anche la storia futura: perché ci sono sempre uomini e donne disposti a imbavagliarsi per chiedere al governo di proclamare che l'America è il legittimo impero del XX secolo. Le sequenze dei cittadini che manifestano in massa imbavagliati, i volti grifagni, pronti a scagliarsi contro coloro che circolassero non imbavagliati, hanno un impatto drammatico e una forza simbolica notevoli: senza la loro complicità attiva, e quella passiva dei Paul Leduic, non sarebbe possibile manipolare la storia e le coscienze. Leduic e quei cittadini senza nome sono la banalità dell'indifferenza, della paura che nasce dall'egoismo, dell'ignoranza.

Domingo Mandrafina

Eppur si può sperare

Leduic non è solo questo, però: è anche un personaggio tenero, goffo e disarmato; quanto ossessivo e monomaniacale. In lui pare di riconoscere - e poco importa se fosse l'intenzione di Trillo: il personaggio evoca l'interpretazione - ogni appassionato di fumetti, o meglio ogni FAN: l'editore francese è completamente assorbito dalla sua ricerca delle strisce originali di Peter Kampf, dalla sua missione di ritrovare le tracce di Al Hit, fumettista austriaco naturalizzato statunitense e il cui vero nome è Adolf Hitler. A Leduic non interessano le idee di Hitler, gli interessa solo il suo fumetto, riportarlo alla luce. Nel corso della sua quest Leduic non si lascia neppure sfiorare dalla realtà circostante: non ne ha tempo. E anche quando la realtà lo colpisce con la forza di un maglio, il francese tornerà alla sua indifferenza una volta ottenuto il suo sacro graal: la possibilità di pubblicare l'opera di Al Hit.

Il gioco di continui rimandi di senso tra "Peter Kampf" e "Peter Kampf lo sapeva" - compresa la corrispondenza esatta di alcune delle strisce del fumetto di Hitler con quanto avviene ai protagonisti del fumetto di Trillo - arricchisce e completa di suggestioni fantastiche e surreali, dona corpo definitivo e sottile dignità letteraria alla dura analisi/denuncia dell'autore argentino.

Hitler è una presenza immanente in tutta l'opera, ma mai lo si vede - è morto nel 1951 - neppure in immagine. Il fatto è che l'Hitler immanente è quello della NOSTRA realtà, a rafforzare il gioco dei rimandi, a renderlo anche più inquietante se vogliamo.

Nella trama dolorosa dell'opera Trillo inserisce anche un elemento atto a mitigarne la disperazione, altrimenti, completa. A prima vista si può giudicare come un inserto posticcio il fragile filo della storia d'amore tra Steve Traven e Karin Milas, come un elemento estraneo allo spirito e allo stile della vicenda. Sarebbe però un'interpretazione superficiale; infatti il coinvolgimento romantico è minimo nell'interazione tra i due personaggi, in particolar modo per quel che riguarda Karin.

L'amore non è solo sdolcinatezza romantica: è anche e soprattutto speranza

L'amore sboccia - se ciò è vero anche per Karin - solo nel finale. Certo, il donchisciottismo di Steve suona melenso; e però non è una vita fiabesca quella che Steve sceglie scegliendo di condividere il destino finale di Karin, un destino modellato dalla prepotenza e dal razzismo - prepotenza e razzismo che vediamo comuni a tutti gli esseri umani, e non solo ai trionfanti statunitensi bianchi di "Peter Kampf lo sapeva": è una vita agra, che non sarà facile. Probabilmente una vita abbastanza infame. Pure, la possibilità di speranza - il ponte - che si ricava dalla scelta di Steve e dall'accettazione di Karin non rende meno dolorosa l'intera vicenda: serve tuttavia a farla più sopportabile e ad aprire la possibilità di una resistenza. Morale, inizialmente. L'essenza della speranza.

Un fumetto tanto duro e al contempo appassionato non può che esaltarsi del pennello di un Mandrafina ispirato. La cupezza da noir, che tanto è trasfusa nei dialoghi di Trillo amplifica la capacità di Mandrafina di comporre le sue gallerie di volti plastici e ambigui, in un certo modo perduti anche quando i personaggi facciano parte dei "buoni". Karin è una splendida femmina mandrafiniana, una donna fatale quasi hollywoodiana, un po' appassita ma dalla carnalità piena, seducente suo malgrado. La scansione regolare delle vignette costruisce un montaggio cinematografico perfetto, ritraendo la vicenda come una pellicola noir anni '40/50.

Una semplice differenza

Le possibilità di reperire oggi questo fumetto in Italia sono scarse, e il suo destino editoriale è avvilente. La differenza tra letteratura e fumetto, in Italia, sta in un fatto banale: se si entra in una libreria e si chiede Il Nome della Rosa o lo si ottiene subito o in qualche giorno; se si chiede Peter Kampf lo sapeva in fumetteria, no. L'opzione migliore è riuscire a trovare su qualche bancarella o fatiscente negozietto dell'usato l'inserto Skorpio Più del giugno 1992 sul quale fu pubblicato insieme a tre delle Storie mute sempre di Trillo e Mandrafina e ad alcune strip del fumetto britannico Beep Peep, come inserto centrale. Negli ultimi tempi della lira si poteva trovare per 500 lire. Che l'Eura editoriale non ne abbia mai fatto, neppure quando sicuramente poteva, un'edizione che sottolineasse il valore di uno dei migliori fumetti argentini dell'ultimo quarto del XX secolo è francamente sconfortante, seppure in linea con altre decisioni del genere. Ma forse meglio questo destino che un'edizione Euracomix macellata dalla colorazione pedestre che vi si utilizza.


domenica 6 settembre 2009

La fantascienza è morta?


La domanda ogni tanto si affaccia e riaffaccia. Fa parte del genere Quaestio otiosa mentulae; sue congeneri sono le più stagionate: “il teatro è morto?”; “il romanzo è morto?”; “il cinema è morto?”; e altre simili amenità per quasi ogni possibile attività della creatività umana. Poiché il teatro, il romanzo, il cinema e il resto sono tranquillamente in vita, quale più in salute e quale magari meno, forse alla fantascienza conviene porsi più spesso ancora la domanda. Non che tali domande siano sempre infondate: magari non sarà completamente estinto, però certo il mimo dei tempi della Roma dei Cesari non ha una bella cera. Insomma, “il mimo è morto?” è una domanda sensata. Ma a guardarsi attorno, chiedersi se sia morta la fantascienza viene subito a mente come quella domanda mentulae di cui sopra. Di fantascienza se ne pubblica e se ne filma in quantità (ahinoi, viene spesso da dire); ne è pieno l’immaginario dei nostri tempi. Se poi sia buona fantascienza è un altro paio di maniche, ma a cercare una definizione condivisibile di “buono” non se ne uscirebbe. Né è molto rilevante.


Ted Chiang - la fantascienza scritta gode ottima salute:

http://olivavincenzo.blogspot.com/2008/12/fantascienza-i-contemporanei-ted-chiang.html


Se la fantascienza è in vita, ed è anche in salute a ben guardare, non vuol dire però che debba esserlo (in salute) proprio in tutte le parti del suo corpo. Tipo quella parte che si chiama Italia.


In Italia, allo stato attuale, la fantascienza non appare davvero di granché robusta costituzione. Né in generale, né in particolare quella scritta dagli autori italiani.


Partendo da questo secondo caso, non parlo in termini di qualità produttiva degli eroici pochi che riescono a farsi pubblicare: come già decenni addietro tra quei pochi ve ne sono di ottimi, di buoni, di meno buoni e di pessimi; come ovunque altrove, e immagino più o meno nelle stesse percentuali. E’ che sono pochi, ora come decenni fa, gli spazi dove possono pubblicare, e quindi tutto sommato pochi anche loro. Nulla di nuovo, sotto questo punto di vista: la fantascienza scritta da italiani è sempre stata una pianticella gracile, per quanto alcuni dei suoi fiori potessero essere graziosi e profumati. Di nuovo c’è che forse oggi quegli spazi un po’ sono cresciuti in termini puramente numerici, ma in compenso sono diminuiti i lettori di fantascienza. Che un fiume in piena non sono mai stati, ma neppure erano il rigagnolo quasi in secca di oggidì; e qualche palcoscenico in più non compensa un calo di spettatori: per certi versi lo rende più inquietante. Qui dal particolare confluiamo nel generale.


Lino Aldani: è stato tra gli scrittori italiani più interessanti degli ultimi decenni ma è pressoché ignoto fuori dei circoli di fantascienza.


Detto che è chiaro che meno lettori significa minor interesse da parte dei grandi editori, che ragionano in termini di numeri consistenti, e che quindi si renda lode a quelli piccoli che comunque permettono di leggere ancora qualcosa, e con loro al fortino di Urania e al suo direttore “Leonida” Lippi che riesce ancora a pubblicare volumi interessanti, sia tra i classici che tra le novità – detto questo - non mi sottraggo all’attuale sport principe dell’appassionato di fantascienza: rispondere al fatidico perché in Italia la fantascienza è in crisi?


Qui una volta era tutta campagna. Negli scaffali delle librerie ormai non c’è più fantascienza, solo fantasy, horror e vampiri. Sono cliché. Ma generalmente i cliché sono tali perché veri. Spesso, come ricorda David Foster Wallace nel libro appena pubblicato in Italia Questa è l’acqua, nascondono verità molto più profonde di quelle immediatamente percepite e percepibili, auto evidenti. Forse quegli scaffali dove sono compressi i superstiti fantascientifici, ovvero Asimov e Dick insieme a non più di una mezza dozzina di altri, indicano qualcosa. Di banale, anche. Ma la profondità non esclude la banalità e viceversa. L’Italia non guarda più da tempo al futuro. In declino demografico, da un paio di decenni almeno va disinvestendo nella scuola, nell’istruzione e nella ricerca scientifica; e dunque nel futuro. Sembra venuta meno una visione a lungo termine (non che fosse mai stata robustissima…), e con essa la visionarietà insita nei fenomeni progettuali. Manca il coraggio di osare. La fantascienza è una forma visionaria di lettura, progettuale: prende la realtà e la trasforma in possibilità. Riflette la realtà come una lente deformante individuandone caricaturalmente le disfunzionalità. E’ apertura al possibile. Per questo ci vuole coraggio.


A questo punto sembra naturale che fantascienza e lettori italiani siano due insiemi sempre meno coincidenti. Pure, il coraggio, la visionarietà e la progettualità saranno deboli tra i lettori italiani, ma non certo estinti. Dobbiamo trovare il modo di far re-incontrare la (buona) fantascienza con questi lettori. Perché hai visto mai che la fantascienza è contagiosa.


Robot, per fare un esempio: la rivista ha diffusione quasi carbonara, come far incontrare lettori curiosi e fantascienza di valore?