lunedì 19 aprile 2010

Viaggio angelico di Minnie Alzona (1921-2008) - Allegoria dell'amore, della morte e della follia


Divergo un'altra volta dalla fantascienza per una lettura che merita.

Amo molto le sfasature temporali.

Leggo oggi, nella ristampa del 1992, questo romanzo pubblicato nel 1977; e che narra, in forma paramitica e fortemente allegorica, eventi del XIII secolo. I piani temporali si intersecano, sovrappongono e rincorrono molto più di quanto si immagini, come cercherò di illustrare.

A prima vista romanzo dà l’idea di un termine esagerato, l’opera appare se mai una novella di non disprezzabile lunghezza. Ma sono il respiro ampio, la concezione ambiziosa e la ricchezza tematica ed espressiva a fornire invece ad esso piena ragione.

Racconto storico; allegoria simbolica; romanzo di formazione; pamphlet femminista; romanzo psicologico. E ancora: indagine suggestiva, da angolazione contemporanea, della spiritualità medioevale; e tentativo di interpretare l’anima moderna al tornasole del mito medievale. Esposizione contraddittoria delle tensioni religiose e dello scetticismo naturale dell’uomo. Opera indubbiamente complessa – e compressa.

Minnie Alzona racconta di una di quelle esplosioni di follia che percorsero il mondo antico e ancor più il medioevo, uno di quei comuni fenomeni di parossismo profetico e plagio collettivo: la crociata dei fanciulli. Fenomeni che vorremmo forse confinati a ere oscure, precedenti la nostra di illuminati figli della ragione; ma l’Illuminismo è una patina sottile sulla nostra civiltà, per quanto spettacolari siano le conquiste cui ci ha condotti, e noi siamo figli davvero molto distratti della ragione: pare quasi che l’essere umano sia incapace di assorbirne realmente i principi, e soggiaccia con voluttà al suo lato oscuro, irrazionale, religioso. E dunque, se ci sorprendiamo a bearci per la nostra superiorità su un tempo di folli, ingenui invasati che partorivano crociate di fanciulli, vale la pena ricordare eventi come Waco e la strage dei Davidians (http://en.wikipedia.org/wiki/David_Koresh) e tornare con i piedi per terra. Se poi arriviamo a tempi ancora più vicini, la tentazione di concludere che non ci siamo mossi dal 1212 si fa deprimente. Questo è lo scenario, lo sfondo storico, umano e psicologico dentro il quale la scrittrice incastona la sua storia di un’anima. Anzi, attraverso gli occhi di una, di una pluralità di anime. Romanzo psicologico e di formazione, sulle pagine di Viaggio angelico osserviamo la dolorosa e insistita seduta di autoanalisi di Allys, la protagonista, giovane donna al momento in cui stende le sue memorie – il romanzo - e appena fanciulla nel tempo in cui esse si svolgono. Nella tessitura accorta, mirabile, di anacronismo su anacronismo da parte di Alzona, Allys narra con sensibilità squisitamente nostra contemporanea i turbamenti di uno spirito medievale, le sofferenze di una giovinetta ribelle alle maglie fitte e costrittive dell’epoca. Narra ora con velato pudore, e ora con inavvertita sincerità, la propria lotta interiore per trovare un’identità psicologica; e il percorso fatto per giungervi. Seppure effettivamente ella vi giunga. Narra gli eventi che, nel comporre la storia esaltata – più che esaltante – della crociata si innervano e innestano in quelli più privati di Allys. Esplora i rapporti che ambiguamente instaura con gli altri personaggi della sua narrazione. Rapporti ambigui non perché equivoci, ma perché Allys solo nel dipanarsi della sua propria analisi, nella sua ricerca dei propri moventi ed emozioni, ricostruisce faticosamente – né sempre riesce a chiarire per sé – la trama ermetica di queste relazioni. Vuoi perché è ella stessa a volte a nascondersi i propri reali intendimenti, sentimenti e pensieri; vuoi perché il peso dei condizionamenti culturali è schiacciante e confondente. Vuoi, infine, perché il giocare di Minnie Alzona con il fascino degli anacronismi rende criptica al lettore stesso una ricostruzione esatta e la narrazione sfuma e trascolora nel mito puro. Si fa allora difficile rintracciare, all’interno del percorso mentale e letterario di Allys, i limiti e i contorni della sua esaltazione infantile, del gusto e della passione romantica per l’avventura, del tormento per l’inadeguatezza della propria tensione religiosa, del rifiuto inconsapevole eppure ben presente alla sua coscienza del ruolo futuro di moglie sottomessa e giovenca da riproduzione che il suo status di appartenente alla nobiltà rurale franca le riservava. Difficile capire quando, come e dove tutti questi fenomeni delimitino, confluiscano e infine sfumino nell’amore che ella prova, in modi così diversi, per Etienne, Eustace, Pierre e Al-Kamil. Perché tutta la storia, tutto il racconto di Allys perderebbe di senso se il suo (chissà quanto) modernissimo spleen, e in particolare il suo rifiuto delle convenzioni sociali, non fosse completato da questa sua (ma chissà se) antica tensione fantastica e ideale, che la protagonista non riuscirà mai a tradurre in realtà erotica. Neppure, se non per allusioni o minimi accenni – pur così audaci -, in confessione cosciente a sé stessa.

Eustace ci appare il personaggio meno riuscito, così simile a un monolite perduto dentro la sua fede incondizionata, specchio e riflesso della reclusione dal mondo rappresentata dalla sua cecità. E però il suo scarno ritratto ci restituisce appieno la dimensione della fede come atto solipsistico di separazione dal mondo reale. L’amore per Eustace è, per Allys, l’amore ingenuo dell’infanzia, è l’amore che si dona. Un amore che con il tempo perde consistenza e si vuol sempre recuperare. Amore che la memoria e la coscienza conservano come rifugio mitico ideale per tutta la vita. E’, anche, l’amore per l’ideale vagheggiato verso il quale tendiamo, senza realmente volerlo raggiungere.

Etienne, il pastorello che si fa profeta, il seduttivo allucinato che suscita entusiasmi e folle umane con il suo carisma è l’infatuazione romantica di Allys, il cedimento alla nostra irrazionale pars destruens. L’amore che più di ogni altro condizionerà le sue scelte e la sua vita; e meno di ogni altro sarà capace di confessare a sé stessa, benché forse sia quello di cui ella è più cosciente. Bruciante, rimpianto, incombusto. Conserva le sue qualità perché la realtà non ha occasione di farne a brani la sostanza.

Pierre, il chierico che per amore inconfessato della ragazzina, che confesserà solo alla donna e solo per lettera al momento di uscire dalla sua vita, accompagnerà Allys ed Eustace nella loro avventura al seguito di Etienne, è l’amore più sotterraneo eppure persistente di Allys. Figura paterna capace di farsi cameratesca, sostituto di quei genitori che Allys rifiuta (ma che prima l’hanno rifiutata). Modello e puntello sia spirituale che intellettuale. Si rivelerà, nel finale, così fragile e umano da uscire dal suo stereotipo e assumere piena consistenza: figura di sradicato e incompiuto. Di animo tormentato, lacerato dalla sua viltà e dal desiderio infine confessato. Dal senso di colpa.

Al-Kamil, califfo e sultano d’Egitto, discendente del Saladino. Padrone di Allys dopo che la ragazzina, fallita miserevolmente l’avventura dei crociati straccioni e bambini, viene venduta ai suoi emissari nel mercato di Algeri. E’ per suo incarico che Allys stende il resoconto degli avvenimenti che l’hanno vista coinvolta in questa sorta di Ver Sacrum inscenato da una turba di poveri dementi. La sua figura resta in controluce, quasi del tutto affidata alle parole indirette di Allys, ai sentimenti così conflittuali che ella prova per il suo padrone, il nemico della sua - tiepida - fede, l’intellettuale curioso e apparentemente troppo superiore e distaccato per essere davvero coinvolto nei sentimenti. Eppure il solo che, alla fine dei giochi, sia realmente gentile con lei. Il solo che le resti. Che sia il mascheramento di un uomo raffinato o il nobile pudore di chi non vuole esercitare il proprio potere, l’interruzione del narrare di Allys ci preclude di saperlo. La sensualità che preme, neppure questa volta riesce a fuoriuscire.

La scrittura di Minnie Alzona guida alla perfezione il lettore all’interno di questa fittissima, intricata trama. E’ ricercata e preziosa, mai immediata, talvolta perfino contorta. Ma ripaga sempre lo sforzo di decrittarne il senso profondo. I paragoni che mi vengono alla mente sono tutti tratti dal gusto: il fraseggiare è pastoso, lo si assapora lentamente come una crema pasticcera ricca di aromi intensi e profumi spessi. Lo stile è elaborato, mai banale, come un intingolo di carni nobili.

Il periodare è teso all’elaborazione di una materia che evoca il mito e dà corpo all’allegoria della vita e dell’anima che è messa in scena. I brevi capitoli in cui è suddiviso il romanzo ne scandiscono un ritmo che viene a comporre quasi più un poema in prosa che un romanzo vero e proprio.

E’ quando non ce lo si aspetta, che spesso ci si imbatte in un tesoro.

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