mercoledì 15 settembre 2010

Edwin C. Tubb (1919-2010)

http://www.locusmag.com/News/2010/09/e-c-tubb-1919-2010/ Come è riportato nell'articolo sul sito di Locus, qualche giorno fa è morto l'autore britannico Edwin Charles Tubb. Lo scrittore, novantenne, era ancora attivo sulla scena letteraria ed è stato eccezionalmente prolifico; c'è un aneddoto in materia che la dice lunga su di lui: esso riporta che al tempo in cui Tubb diresse una rivista di fantascienza, non avendo ricevuto materiale che ritenesse abbastanza buono da venire pubblicato ne scrisse un intero numero da sé utilizzando i suoi svariati pseudonimi. Per intero si deve intendere comprese le lettere dei lettori :-).

Probabilmente Tubb non è stato il più raffinato scrittore di sf sulla piazza, ma è stato senza dubbio un artigiano solidissimo e ha prodotto storie su storie in grado di divertire i lettori attraverso i decenni. Ha scritto principalmente space-opera, la cara vecchia e avventurosa fantascienza spaziale, e nel campo il suo risultato maggiore è rappresentato dalla pletorica serie di Earl Dumarest, composta di oltre trenta romanzi (l'ultimo volume in ordine di tempo era apparso lo scorso anno).


In questi ultimi anni Tubb ha goduto di un ritorno di interesse da parte dell'editoria italiana (non grandi editori, ma buoni). La Elara, storico editore di fantascienza (ex Libra; ex Perseo) sta pubblicando per i suoi eleganti tipi il ciclo di Dumarest. Le Edizioni della Vigna hanno pubblicato invece I Posseduti, titolo che si allontana dalla classica produzione "spaziale" di Tubb, un romanzo ibrido tra thriller, horror e fantastico.

martedì 14 settembre 2010

Lost in translation – Un’ultima parola su Urania e i tagli nelle traduzioni

Scrat scrat scrat. Rumore di unghie frenetiche che tentano di abbarbicarsi alla liscia superficie di lucidi, impervi specchi. Una spessa coltre di nebbia a celare i provetti alpinisti.

E’ ormai storia vecchia: settimane fa qualcuno ha confrontato il fascicolo di Urania n.1561 contenente la traduzione di un romanzo premio Hugo di Vernor Vinge con l’edizione originale dell’opera e ha diffuso la notizia; un fatto molto semplice, come si vede. Ai tempi della Rete succede. A questo punto dei lettori si sono risentiti e lo hanno fatto presente: ai tempi della Rete accade anche questo. In tal modo, a seguito della cosa si è venuti a sapere in via ufficiale (i si dice, i tutti sanno che, vorrei ricordarlo, non contano una mazza) che non tutte le traduzioni di Urania sono integrali, che alcune sono pesantemente tagliate e la decurtazione può arrivare perfino al 15% della lunghezza complessiva dell’opera. 

Un fatto anch’esso molto semplice, banale se vogliamo. Chiaramente, è increscioso che non fosse mai stato dichiarato che una politica editoriale data per chiusa anni addietro venisse nuovamente praticata. E’ increscioso essere stati pizzicati, chiaro. Ma ai tempi della Rete prima o poi le cose si risanno, è bene esserne consapevoli.
Il passato di Urania *

Come è naturale che fosse, sono seguite le scuse ai lettori da parte dei responsabili  della testata e dell’editore e l’assicurazione che se motivi di politica editoriale avessero in futuro reso ancora necessaria la pratica i lettori ne sarebbero stati avvertiti in copertina, e magari, per ulteriore correttezza, un editoriale interno avrebbe spiegato i motivi e la natura dei tagli. Lineare e scontato, monsieur de La Palice benedice e plaude dall’alto dei cieli. Il modo più dignitoso di chiudere la vicenda, no? No. Ora svegliatevi dal sogno.

E’ stato a questo punto che i responsabili della testata hanno iniziato la loro ascensione alla parete vetrosa del K2 e un esercito di complemento di addetti variamente ai lavori si è schierato compatto a difesa emettendo nebbia e incasinando le acque perché il punto nodale della questione fosse confuso tra altri mille irrilevanti.

Per cui restiamo al punto. E il punto è che i tagli erano stati praticati alla chetichella senza dare alcuna informazione: i si dice, i tutti sanno che, vorrei ricordarlo di nuovo, non contano una mazza. Che qualcosa si risappia dandosi di gomito tra gli amici degli amici rende solo più sporca la tal cosa quando viene fuori. Che il nodo (la figura di merda prodotta da una pratica assai inelegante e taciuta) sia questo e ne sia ben consapevole chi deve esserlo, lo ha chiarito perfettamente la reazione inviperita dei vertici uraniani che sul blog della rivista si sono spinti ad affermare che la richiesta di segnalare eventuali edizioni non integrali vorrebbe imporre loro un velleitario, anti-professionale e, in ultima analisi, menzognero bollino di anti-qualità che solo la mente di un fanatico poteva concepire. Ohibò. Dunque comunicare un fatto, che cioè si sta presentando un’edizione che non riproduce integralmente l’opera originaria, sarebbe un atto menzognero. La guerra, insomma, è pace, ci viene fatto sapere. Informare gli acquirenti di cosa stanno comprando e del lavoro svolto sarebbe anti-professionale. La guerra è pace, si diceva. Va da sé che la banale richiesta di avere informazioni commerciali si configura come velleitaria ed è anche indice di fanatismo. La guerra… ma l’ho già detto.

Restiamo al punto, allora. I tagli in sé non rappresentano una questione essenziale (anche se non è irrilevante: ci torno più oltre). La politica editoriale e i motivi che la dettano, economici o altri, sono esclusivi cazzi dei vertici aziendali e dei responsabili della testata. Se vogliono prendere un libro e pubblicarne la traduzione di una parola su due è nel loro pieno diritto, e le questioni contrattuali in materia sono affari che riguardano loro e l’autore.

L’acquisto invece è cazzi del lettore. Cazzi miei.

Se acquisto un libro tradotto, ciò che mi aspetto è che esso rappresenti la traduzione fedele dell’opera originale. Ciò che di norma accade (o dovrebbe accadere). Dove fedele non vuol dire letterale, parola per parola: questo è talmente scontato che solo chi ciurli nel manico con intenzione potrebbe artatamente equiparare l’opera di traduzione a quella di taglio e/o condensazione (e anche all’editing pregresso o agli interventi in modifica dell’autore stesso da un’edizione a un’altra, specie in riferimento a opere vecchie di decenni). Se qualcuno mai vi dovesse venire a dire una cosa del genere sapete subito di avere a che fare con un furbone che vuole intorbidare le acque e prendervi per i fondelli. Fedele vuol dire che il traduttore ha ricevuto mandato di prendere globalmente in considerazione un’opera e la traduce di conseguenza – l’edizione specifica dell’opera che gli è stata consegnata per la traduzione (nel caso di un’opera esistano più edizioni, perché l’autore l’ha ampliata o rimaneggiata, segnalare quale viene tradotta non sembra una cosa così difficile da fare da parte dell’editore). Traduce perciò operando, in base alle proprie competenze specifiche, l’adattamento in un’altra lingua secondo le caratteristiche di questa lingua. Adattamento dell’opera: di TUTTA l’opera.  
Il presente di Urania *

E’ in questi termini che una traduzione è da intendere come fedele, salvo errori materiali di traduzione. Ed è in questi termini, laddove non specificato altrimenti, che il lettore acquista la traduzione italiana di un’opera straniera. Traduzioni parziali ve ne possono essere per i più vari e degni motivi: edizioni scolastiche; per ragazzi; supereconomiche; Selezione del Reader’s Digest. Basta segnalarlo nel modo più inequivoco possibile: in copertina è l’ideale. E’ in effetti prassi comune farlo perché permette di riconoscere cosa si sta comprando (ma anche vendendo). E’ il banalissimo minimo della professionalità e della decenza. Ma la guerra… Appunto.

Tutto qui: dare al lettore le informazioni in base alle quali effettuare l’acquisto. Se il lettore vuole una traduzione fedele non comprerà una traduzione condensata se, per qualsiasi motivo, gli sta bene una traduzione condensata la acquisterà.

Perciò se qualcuno cerca di buttarvela in caciara perché tanto non esisterebbero “vere” traduzioni fedeli e quindi di che vi lamentate, ditegli che ciurla nel manico, perché così è. Se qualcuno vi dice che è meglio avere una traduzione condensata su Urania che nessuna traduzione, ditegli che ciurla nel manico, perché così è. Se un frutto maturo casca dal pero assieme all’idea che il 15% di tagli è un nonnulla (a casa mia è più di una pagina ogni sette, ma forse la matematica è un’opinione da velleitari, anche un po' fanatici), ditegli che ciurla nel manico, perché così è. Se tizio ve l’ammischia con il fatto che Urania costa poco e quindi cosa pretendete, ditegli che ciurla nel manico, perché così è. Se un tipo ameno vi fa notare che all’autore non frega nulla dei tagli per cui perché accidenti deve fregare a voi, ditegli che ciurla nel manico, perché così è. Se un’anima bella vuol darvi a bere che quell’autore così prolisso è tanto migliore una volta asciugato in sede di traduzione e quindi vi è stato fatto un favore a tagliarlo, ditegli che ciurla nel manico, perché così è e nel modo più plateale e paraculesco: di tutte le stronzate possibili è la più divertente. Non perché abbia necessariamente torto, magari è davvero così. Ma lascialo giudicare, o decidere di non giudicare, a me. Tu (tu editore) limitati a dirmi se hai tradotto tutto o meno in modo che io sappia cosa sto leggendo (ma soprattutto cosa compro). Se insomma qualcuno svicola dalla questione fondamentale, che è quella della mancata informazione al lettore del dato su cui basare l’acquisto, ditegli che ciurla nel manico. Perché così è. E lo sa. Quanto meno all’85%.
Il futuro di Urania? *

La politica editoriale è affare dell’editore e del curatore della testata come scrivevo, e perciò non entro nel merito: all’editore di Urania non frega giustamente un tubo della fantascienza e di come viene presentata e diffusa in Italia, questo è interesse dei lettori se mai. Le ricadute però giungono al lettore e suscitano interrogativi. La pratica di tagliare sezioni assai ampie di un romanzo ne condiziona chiaramente la lettura (o la decisione di non leggerlo). Poiché al di là del fatto che all’editore non importi un fico secco di quello che pubblica ritengo tuttavia che nessun lettore ragionevole pensi che i romanzi vengano tagliati per divertimento, ciò porta ad alcune considerazioni. Assumiamo per comodità (e magari anche carità di patria…) come autentica e sola motivazione dei tagli quella economica per cui Urania non può permettersi la pubblicazione di volumi che superino una certa mole, per altro non così striminzita. L’interrogativo a questo punto è spontaneo: Urania (la testata madre) pubblica in tutto una decina di volumi stranieri all’anno, a fronte di una marea di materiale che viene pubblicato ogni anno negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, Canada, Australia. Per tacere del resto del mondo e dei volumi che si accumulano di anno in anno. E’ proprio impossibile trovare una decina di buoni volumi più o meno della lunghezza ideale per essere pubblicati senza tagli? E’ chiaro che rinunciare all’ultimo premio Hugo perché è troppo lungo può bruciare a chi cura la testata, però magari un paio dei finalisti del Nebula avevano proprio la lunghezza giusta.

Ma ho divagato anche io. Concludiamo al punto. E’ nel diritto di un editore pubblicare come cazzo gli pare i romanzi dei quali acquista i diritti; anche tagliandoli a metà se vuole. Però per correttezza avverta quando li taglia (non ditemi nulla, sto già ridendo da solo all’idea di avere invocato la correttezza di un’azienda verso i clienti). Del resto, a quanto pare, a parte quattro catoni non interessa praticamente a nessuno se i romanzi vengono tagliati o meno, giusto? Quindi non può davvero essere che quell’avvertimento non viene messo perché hai visto mai che se le cose le dici chiaramente invece che tutti sanno che le cose vanno così i lettori – pardon i clienti, manteniamo le distanze – potrebbero addirittura cominciare a pensare.

Vero?

* Individuate le zero piccole differenze tra le immagini proposte

domenica 12 settembre 2010

Il Classico – Lettere d’amore (The love letter 1959) di Jack Finney (1911-1995)


Jack Finney è oggi ricordato (ammesso che lo sia) perché dal suo romanzo del 1955 The Body Snatchers fu tratto il noto film di Don Siegel L’Invasione degli Ultracorpi (1956) con relativi remake, sequel, annessi e connessi. Peccato. Il film è un caposaldo della cinematografia fantascientifica, ma la sua fama e immagine non solo schiacciano quelle di un romanzo interessante nonostante certe incoerenze di trama e inconsistenze narrative, ma soprattutto hanno praticamente ridotto Finney a questo solo romanzo. C’è invece altro, e di meglio.

Nato nel Wisconsin di Simak, educato nell’Illinois di Bradbury, al suo meglio Finney può ricordare l’intimo umanesimo dell’autore di City, ma è soprattutto accostabile negli intenti stilistici e in certo “impressionismo” a quello delle Cronache Marziane. Nell’introduzione alla sola pubblicazione italiana di questo racconto che mi risulti (Storie del tempo, Galassia n.207, 1975), i dioscuri Vittorio Curtoni&Gianni Montanari parlano per Finney di fantascienza crepuscolare. Crepuscolare senza dubbio, fantascienza lo direi con cautela. Del resto Finney, scrittore dal 1946, non fu mai un autore organico alla sf di genere pur avendone scritta sin dal 1951: per dire, questo racconto fu pubblicato in origine sul Saturday Evening Post, non su una delle riviste specializzate. Autore eclettico, egli fu uno dei tanti scrittori di talento che popolarono le riviste americane spaziando abilmente tra i generi e non, costruendo carriere su romanzi e racconti scritti con competenza, e dando l’occasionale zampata di alta classe. The love letter è senza dubbio una di queste zampate, un racconto breve di sottile intensità, capace di ingenerare commozione nel senso migliore del termine, e scritto con uno stile misurato e trattenuto, con finezza letteraria e attenzione al dettaglio di atmosfera e alla resa impressionistica della narrazione (dal racconto, scopro in rete, è stato tratto nel 1998 un film per la tv, che francamente a naso non sono impaziente di vedere). Vi ricorrono i temi privilegiati della narrativa di Finney, il tempo e la nostalgia, comuni alle sue opere migliori: gli altri racconti antologizzati nel volume (in originale la raccolta è intitolata, dal racconto eponimo, I love Galesburg in springtime – Galesburg è la città dove Finney crebbe) e il romanzo del 1970 Time and again, in italiano Indietro nel tempo. Senza dimenticare The Woodrow Wilson Dime del 1968, in italiano La monetina di Woodrow Wilson.

The love letter ha una trama di semplicità disarmante: un ragazzo ama una ragazza. Da un punto di vista strettamente narrativo, di ciò che avviene, non c’è altro. E tuttavia su un tema tanto minimo (e soprattutto frequentato…) Finney riesce a imbastire una storia in grado di colpire il lettore ed emozionarlo profondamente.

Jake Belknap è un giovane uomo, vive a New York nel 1959 nel quartiere di Brooklyn, la sua famiglia è lontana in Florida. Ha un lavoro dignitoso e vive la vita dello scapolo senza scapestrataggine particolare. Vagheggia l’amore; oserei dire coniugando alla giovanile capacità di sognare una punta di borghese assennatezza. Un bravo ragazzo, nel senso più buono del termine. Il giovane acquista da un antiquario una scrivania, ed esplorandone i cassetti scopre dei comparti segreti; nel primo di essi trova della vecchia carta da lettere in bianco, dell’inchiostro conservatosi attraverso i decenni e una vecchia penna. E una lettera. La lettera è firmata nel 1882 da Helen Elizabeth Worley, una ragazza vissuta a Brooklyn a pochi isolati alla casa di Jake. In ossequio al costume del tempo la giovane donna sta per sposare qualcuno scelto per lei e del quale non è innamorata. La lettera è indirizzata invece all’uomo che ama. Solo che quest’uomo non esiste, è il vagheggiamento di un uomo. Non che Helen sia pazza, la lettera non è in alcun modo un delirio: è un voto, un augurio, l’espressione di un desiderio che ella sa essere del tutto eventuale, quasi certamente destinato a restare tale. Anche in Helen si ravvisano giovanile ardore e borghese assennatezza congiunti in una ferrea unione. Non siamo però nella realtà e neppure in un racconto realistico, per cui qualcosa accadrà.

Spinto da un impulso ineffabile Jake decide di rispondere alla lettera. Detta così ovviamente suona come una sciocchezza da povero esaltato. Ma come spiega Jake stesso (o più correttamente come scrive Finney facendo arrampicare Jake sugli specchi ;-)) egli si è ritrovato a leggere la lettera di Helen a notte fonda, quando il silenzio e il buio esterno paiono mutare il tessuto stesso della realtà, confondono lo spirito e donano corpo a idee che altrimenti nessuno avrebbe. Nessuno compos sui.

Di qui in avanti si dispiega la sapienza descrittiva e narrativa di Finney; ammiriamo l’accuratezza pittorica e lo spessore psicologico con cui ricrea il vagabondare notturno di Jake fino al vecchio ufficio postale del quartiere, risalente ai tempi in cui Helen era nata e poi era stata bambina e infine giovinetta, dove imbuca con tutti i crismi la lettera che le ha indirizzato. E il vagabondare diurno in pellegrinaggio alla casa che la ragazza aveva abitato, e che ora è diroccata e in rovina, conservando tuttavia il potere evocativo della nostalgia della sua pura presenza fisica. Le ricerche documentali in biblioteca sulla New York di ottant’anni prima, su Brooklyn e le sue strade. Queste sfumature, talvolta nuances tenui e delicate sono il cuore del racconto e sono al cuore del racconto.

Anche se qualche curatore di fantascienza potrebbe pensare che si tratti di dettagli non strutturali. Ma tant’è.

Scrivevo più sopra che crepuscolare è un aggettivo quanto mai adatto a Finney (e a questa storia), ma di certo fantascienza va usato con maggior precauzione. Non che sia di qualche importanza, sia chiaro. E siamo comunque nel campo del fantastico (del fantastico puro, a mio parere); non stupirà quindi che Helen risponda alla lettera di Jake.

Come e perché ciò accade non è importante, e anzi il tentativo di Finney di dare una qualche spiegazione è la sola parte debole e del tutto farlocca del racconto. Fatto sta che attraverso i decenni che li separano e sempre li separeranno, Helen e Jake vivono o hanno vissuto una breve eppure durevole - e intensa - relazione emotiva. Un pugno di lettere, ma un ricordo che ciascuno serberà fino alla morte.  Un amore privatissimo, irreale e surreale, eppure profondo e consistente.

Finney mostra una mano controllatissima nella scrittura e nel maneggiare una materia tanto a rischio di sfuggire e trasformarsi in corrivo romanticismo a buon mercato. La dimensione fantastica lo aiuta senza dubbio a mantenere il racconto nei binari di uno struggimento venato di tanta malinconia e nostalgia da superare ogni rischio di svilimento, ma la sua prosa misurata è gran parte del risultato. Che poi un argomento come il viaggio nel tempo, per quanto qui il viaggio sia sui generis, venga risolto su una tonalità narrativa che è meglio rubricata sotto il fantastico puro, è un dettaglio irrilevante: questo lettore di fantascienza amerà The love letter per le emozioni che gli ha dato. :-)

Il racconto è leggibile in inglese a questo indirizzo:


I contemporanei – Prete, Fornaio, Bugiardo, Libertino, Maschera Rossa, Maschera Nera, Gentiluomo, Assassino (Sinner, Baker, Fabulist, Priest; Red Mask, Black Mask, Gentleman, Beast - 2009) di Eugie Foster (n.1971)

Il titolo non è dei più maneggevoli, per così dire. Aderisce però come un guanto alla storia e in certo modo spiazza in anticipo il lettore, che spiazzato sarà poi addentrandosi nel racconto e, quando riterrà di averne infine individuato le coordinate narrative, resterà probabilmente spiazzato anche dalla conclusione. Buona dunque la scelta di averne mantenuto il senso in sede di traduzione italiana, apparsa sul fascicolo numero 60 di Robot, ultimo pubblicato al momento in cui scrivo.

Edito in origine su Interzone di gennaio 2009, il racconto ha guadagnato con merito all’autrice il premio Nebula per la migliore novelletta del 2009.

Il tema delle maschere, dell’identità e del mascheramento e confusione dell’identità è ricorrente in fantascienza (e non solo): è senza dubbio un topos che tocca il vivo della nostra sensibilità, che ci costringe a porci domande a cui forse non vogliamo davvero rispondere, né tanto meno che lo faccia qualcun altro per noi. E’ anche argomento che si presta a perfezione per imbastire trame complesse, movimentate, rutilanti; per costruire Avventura con la maiuscola. Non è facile trovare ancora qualcosa da dire in materia, e soprattutto farlo divertendo e affascinando il lettore. E costringendolo a pensare.

Eugie Foster elabora una trama in realtà semplice ed essenziale, ma sfoggia abilità e padronanza del mestiere avvolgendo questo nucleo narrativo in una ragnatela di suggestioni, impressioni, stimoli, sottili suggerimenti psicologici che plasmano nella fantasia del lettore un’architettura complicata ben oltre l’asciuttezza del racconto. Suggestioni e stimoli che sono però tutt’altro che semplici coloriture per allungare o per stupire: rappresentano la materia prima del tono del racconto; ed è il tono a dettare il senso e modulare il ritmo della narrazione.

 La novelletta è ambientata in un futuro imprecisato che immaginiamo assai lontano, ma che potrebbe anche non essere il nostro futuro. I cittadini vivono giorno dopo giorno una vita sempre uguale e sempre diversa. Ogni dì, al mattino, a meno che non giungano ordini precisi da parte della Regina, la scelta della maschera da indossare per la giornata. E’ la sola scelta del cittadino, che in base a essa quel giorno sarà maschio o femmina, sarà un amante, un mercante, un contafrottole o una commessa. Insomma: Prete, Fornaio, Bugiardo, Libertino, Maschera Rossa, Maschera Nera, Gentiluomo, Assassino. La maschera una volta indossata fornisce un’anima e modella volontà e comportamenti. Quel giorno si morirà (e allora si “salta” il resto della giornata), si ucciderà, ci si annoierà o quant’altro. Sempre che, si diceva, attraverso i suoi gendarmi non ci siano disposizioni precise da parte della Regina. Magari una convocazione per servirla - e sì, principalmente il servizio da rendere è di natura sessuale (oppure lavoro coatto). L’incipit della novelletta racconta tutto questo con toni sospesi tra la fiaba orientale e la fantasy per adulti con ambizioni intellettuali, ma ancora una volta è principalmente una mascheratura. La società che esce dal breve schizzo tracciato ricorda con forza quelle degli insetti sociali, siano formiche e api o le più primitive termiti.  Il desiderio sessuale stesso è deterministicamente suscitato (o meglio guidato e incanalato) da una chimica sessuale a base feromonica. Neppure la conclusione della storia chiarirà se questa società è una remota evoluzione della nostra o se Foster ci ha narrato una allegoria da intendere senza tempo; ma non ha importanza: ciò che è davvero fondamentale è l’inquietante riverbero di questo racconto sulla nostra realtà presente, e in realtà su caratteristiche che appaiono immutabili nella storia dell’uomo. L’Inquietante è ciò che caratterizza la fantascienza più di ogni altra cosa. Più del sense of wonder stesso. Di primario rilievo, certo, ma esso è un tratto comune a tutta l’avventura esotica, il racconto di terre lontane e le gesta degli eroi più grandi della vita, seppure la sf ne fa un uso peculiare. La fantascienza per essere tale deve aggiungervi una dimensione destabilizzante, deve porci domande non rassicuranti. E fornire interpretazioni in linea.

Viene da chiedersi se siamo davvero irreggimentati come la società della Regina. Se ogni giorno indossiamo una maschera diversa (o magari sempre uguale) per nascondere la nostra identità, o ancor più per la paura di non averne una. O se invece la maschera che indossiamo non è che il riflesso pavloviano della nostra reazione a bisogni e motivazioni indottici dalla struttura economica della nostra società: l’imperio feromonico degli odori nella società descritta da Foster appare molto esplicito in questo senso. E da questa specifica angolazione il modello consumistico del nostro presente non è diverso dai modelli sociali ed economici del passato che imponevano necessità diverse ma non per questo meno spersonalizzanti e coattive.

Viene da chiedersi se le maschere che indossiamo non servano che a frenare pulsioni che altrimenti sarebbero incontrollabili; e a favore di chi o cosa vada questo raffrenamento.

 L’ignoto protagonista della novelletta verrà tratto fuori dalla routine da Pena, una donna che dopo averlo attentamente studiato lo attirerà in trappola, o più esattamente in una situazione che sembra preludere al classico sviluppo di tante storie basate sulla realtà di società profondamente distopiche e la lotta per rovesciarle. Ma appunto: sembra. Ancora una volta.

E’ il momento in cui il lettore riceverà (poche) risposte in merito alla storia della società descritta e come essa sia sorta.

Pena fa parte con ogni evidenza di un’organizzazione, rigidamente strutturata in cellule tra loro non comunicanti, che punta a restituire ai cittadini la libertà di scegliere la propria identità e in ultima analisi di conoscere sé stessi: i cittadini non hanno nome, perché “E se scopro che il mio dottore e il mio assassino sono la stessa persona?”. Indubbiamente è qualcosa più che increscioso formulare il pensiero che il simpatico medico che cura i nostri figli possa insidiarli. E’ profondamente destabilizzante. Siamo molto fortunati che i nostri nomi non designino altro che un dato anagrafico, se dovessero rivelare la nostra vera identità la nostra società cadrebbe a pezzi. Intendiamoci, non è detto che sarebbe un fatto negativo.  Da qui in avanti la conclusione apparirebbe scontata, soprattutto dopo che Pena cade vittima dei gendarmi della Regina (che in questo caso ammazzano sul serio, non è la “morte” in maschera che i cittadini provano spesso) e nel morire passa la fiaccola della libertà all’ignoto protagonista. Ma cosa si deve intendere per libertà? Cos’è la libertà.

I cuori timidi non vadano oltre, perché da qui in poi scriverò di come si conclude la novelletta.

Rendere a qualcuno la libertà significa rimettersi a lui. Significa lasciare che emerga una personalità repressa. La maschera che noi indossiamo, così come le maschere indossate dai servi della Regina, hanno la funzione di impedire questa manifestazione incondizionata. Gli effetti della libertà sono imprevedibili. Soprattutto senza educazione alla responsabilità (okay, la responsabilità è OVVIAMENTE un’altra maschera). Fatto sta che l’ignoto protagonista torna dalla sua amante (da chi, cioè, prima che Pena lo attirasse in trappola era la sua amante nella finzione di quel giorno) e l’ammazza senza fare troppi complimenti. Forse era lecito attendersi nobili battaglie per restituire la libertà al popolo oppresso, ma temo che sia nel diritto dell’ignoto protagonista affermare che: “Pena mi ha insegnato anche a capire chi sono. Io sono il caos in questa società ordinata, la falla in un piano accuratamente elaborato. Sono la tempesta nel fiume eterno della regina.”. Esteticamente è una conclusione brutale e beffarda, probabilmente fin troppo sincera; ma ci sta tutta. Dietro la maschera c’è l’istinto, la “legge” naturale.

Poi decida ciascuno se si tratta di una conclusione progressista, reazionaria, anticonformista o altro. Entro certi limiti non mi pare una questione fondamentale. Fondamentali mi sembrano gli interrogativi che la storia ci pone.

La novelletta è disponibile in versione podcast (in inglese) a questo indirizzo:


sabato 11 settembre 2010

Il ghetto dentro la testa


Quando venne la libertà il Vecchio Padrone ci mandò a chiamare e disse: “Siete liberi, noi non abbiamo più nulla a che fare con voi. Andatevene via!”. Noi guardammo lui e la Vecchia Signora senza parlare. “Andatevene via – ripeterono – non ci appartenete più, siete liberi”. Noi ce ne andammo, ma non avevamo un posto dove andare, e niente da mangiare. Furono anni terribili. Molti di noi morirono. Ogni volta che tornavamo dal Vecchio Padrone, egli ci diceva: “Andatevene via. Siete liberi. Dovete badare a voi stessi, ora. Siete liberi”.

Purtroppo non trovo la fonte di questo apologo, attribuito a un ex schiavo liberato per effetto del Tredicesimo Emendamento alla Costituzione degli Stati Uniti; non saprei neppure dire se non sia del tutto apocrifo. La questione è comunque di scarso rilievo; ciò che è più interessante è come l’apologo descriva alla perfezione i devastanti effetti psicologici della schiavitù. Cosa c’entra tutto questo con la fantascienza? Ecco, diciamo che la triste faccenda dei tagli ai romanzi pubblicati in Urania di cui scrivevo nel post precedente ha messo in luce qualcosa di molto simile tra i lettori di fantascienza. Non tutti, per carità (e per fortuna), ma pur sempre troppi: cioè almeno uno più di nessuno.

Lettori che non appaiono particolarmente scontenti della “simpatica” politica uraniana praticata alla chetichella. Se fossimo nel film di Frank Darabont Le ali della libertà (The Shawshank redempion, 1994) Red, interpretato da Morgan Freeman (nomen omen) potrebbe dirci che questi lettori sono ormai “istituzionalizzati” – sono cioè stati psicologicamente plasmati dalla situazione che hanno vissuto (nel nostro caso l’imprinting uraniano fortissimo di tanti lettori). Che è poi esattamente la situazione psicologica che ebbero ad affrontare gli schiavi dell’apologo, che si ritrovarono improvvisamente emancipati, scoprendo che erano sì liberi, ma che proprio per questo non c’era più qualcuno che gli passasse un pasto (magari anche magro, magari anche schifoso) e un tetto (magari anche cadente). Qualcuno che pensava e si preoccupava al loro posto. Magari li bastonava, è ovvio, però intanto… però intanto li sollevava dalla responsabilità. Quegli schiavi scoprirono che la libertà ha un prezzo. Che la libertà comporta responsabilità; la necessità di pensare a sé stessi, a come procurarsi il cibo e il luogo ove poter vivere. Forse furono in molti, soprattutto i primi tempi, a pensare che in fondo il prezzo della propria dignità e libertà non fosse troppo iniquo in cambio di un pasto sicuro (ancorché magro e schifoso) e di un tetto certo (ancorché pericolante e un po’ insalubre). Quegli schiavi dovettero ricostruire la propria anima, la propria personalità. Dovettero estirpare la schiavitù che era dentro la loro testa.

Ma non vorrei tirarla troppo in lungo con le metafore o farla più grande di quel che è e merita. Fatto sta, comunque, che da parte di più di un commentatore si sono lette cose francamente sconfortanti per adesione psicologica alla sudditanza e all’accettazione passiva di qualunque pratica offensiva nei confronti dei lettori (che poi sarebbero anche i tizi che li pagano i volumi di Urania, eh). Cose anche fantasiose. Cioè per aderire alla pratica dei tagli si dà fondo alle proprie risorse intellettuali.

Intanto, pare, dato che Urania costa poco allora è comprensibile che si taglino i romanzi: se ti fanno pagare poco in fondo non puoi pretendere anche che quei libri siano dignitosi (ricordate? un pasto, magari anche schifoso… un tetto, magari anche cadente). Poi, dato che i tagli non sono “strutturali” (alla faccia, ogni cento pagine se ne fanno fuori quindici, più di una ogni sette!) quasi quasi bisognerebbe ringraziare la redazione perché non ci fa leggere le lungaggini di tanti scrittori incapaci di scrivere. Che magari sono davvero incapaci di scrivere, ma vorrei essere io a giudicare le cose senza che ci pensi qualcun altro al posto mio. E invece è tanto bello che ci pensi mamma Urania (ricordate? assumersi le proprie responsabilità è dura, il padrone ti frusterà anche, però pensa al posto tuo: ti veste, ti sfama, la tua vera paura è che si incazzi perché gli rompi i coglioni). E infine, meglio stare zitti e potere comunque avere – tagliati – certi romanzi, perché almeno Urania li porta in Italia. Farsi sfiorare dall’idea di esigere di essere trattati da lettori – e clienti – consapevoli, non è proprio cosa invece. Ancora una volta è la psicologia servile a imporsi: il servo – il servo nella testa - si contenta di quello che il padrone gli passa. Con un’altra metafora, potremmo dire che in tal modo si applica alla sf la Legge di Gresham: La moneta cattiva scaccia la moneta buona. In questo modo, l’offerta di Urania non migliorerà MAI.

Ci manca solo di sottoscrivere l’affermazione del curatore secondo la quale segnalare quelle traduzioni che non fossero integrali si qualificherebbe come un velleitario, anti-professionale e, in ultima analisi, menzognero bollino di anti-qualità che solo la mente di un fanatico poteva concepire. Sia chiaro che Urania è nel pieno diritto di pubblicare romanzi anche tagliandone la metà, ma l’integrità degli stessi è un criterio fondamentale per deciderne l’acquisto o meno. Tipo: un romanzo decurtato del 15% del suo contenuto a me non pare che valga l’acquisto in ragione del fatto che costi poco, visto che non si tratta dell’opera pubblicata in origine per quel che mi riguarda il suo valore è zero. Valutazione mia, sia chiaro, ma è mio diritto poterla fare sulla base delle informazioni che l’editore dà di quanto offre in vendita. Che l’editore deve darmi. Segnalare quando l’opera messa in vendita non è integrale è il minimo della professionalità che ci si debba aspettare da (e si debba chiedere a) un editore. Il minimo, non il massimo.

Insomma, siete davvero contenti di essere schiavi? Non crediate che la “comoda” schiavitù non abbia un prezzo, però.

Riguardatevi il prezzo che esige Vaal in un memorabile episodio di Star Trek (il primo ST, quello con Spock e Jim Kirk): The Apple.