domenica 31 gennaio 2010

[fantascienza] I contemporanei – Lasciate che i coniglietti vengano a me (1995) - di Mauro Scarpelli (1948-2001)


La fantascienza italiana non è solo E-Doll, il romanzo vincitore dell'ultimo Premio Urania. Per fortuna. Non posso produrmi in una recensione per il semplice motivo che il registro stilistico di Verso ha stroncato ogni mia velleità di lettura in quattro capitoli: va bene tutto, ma sono francamente indigeribili le orge di aggettivi e vocaboli involuti, affastellati tutti insieme come per la scoperta improvvisa della loro esistenza e l’entusiasmo infantile di usarli tutti insieme. E’ anche, per fortuna, il recente Il Quinto Principio di Vittorio Catani, ampio opus magnum di questo veterano del campo di cui sono arrivato a tre quinti della lettura e che mostra bene come cambino le cose quando si possiede una padronanza sicura della lingua e delle sue ricchissime possibilità espressive: come dalle orge si passi a tessiture labirintiche e raffinate.

Ed è una buona messe di altre opere scritte negli ultimi lustri. Messe dalla quale estraggo questo racconto dal titolo a un tempo farsesco e sottilmente ambiguo, quasi minaccioso. Titolo che in ciò riassume perfettamente il senso del racconto, quella tonalità doppia che lo caratterizza e attraverso la quale si dipana.

Su Mauro Scarpelli non ho reperito altre notizie che quelle biografiche minime; il racconto venne pubblicato in una antologia curata da Franco Forte edita da Stampa Alternativa, Fantasia, un cofanetto-raccolta di una decina di quei celebri spillatini millelire che ebbero grande fortuna.

Scritto con uno stile immaginoso, con tono, come anticipavo, tra ironia che sconfina nel sarcasmo della farsa e l’evocazione di atmosfere di pericolo e ambiguità, il racconto è una scoperta metafora dei dubbi, delle lacerazioni, delle sofferenze dell’adolescenza; e della forza con cui le sicurezze, i sogni, le fantasie (ma anche le dolci paure) dell’infanzia fanno presa su di noi – di come il sogno di un’infanzia che non abbia fine ci seduce fino, a volte, a perderci. Metafora scoperta ma non per questo meno riuscita: anche ne Il brutto anatroccolo è così. In primo luogo per l’abilità con la quale l’autore ha saputo intrecciare un tema così psicologico con una impalcatura che è solidamente fantastica e fantascientifica. Il Piccolo protagonista del racconto riassume in sé più di una figura archetipica: l’adolescente irrisolto tra la terra cognita della puerizia e il vasto territorio sconosciuto della vita adulta che gli si stende dinnanzi; l’eterno Peter Pan che si rifiuta di crescere (e a trentasette anni è ancora bambino e si fa leggere le fiabe per addormentarsi); l’idiot savant dai talenti inattingibili e incomprensibili agli altri – e incontrollabili; come è per le pieghe della psicologia adolescenziale che a volte ci appaiono impermeabili alle nostre capacità di analisi e comprensione – e quindi controllo. E’, Piccolo, un personaggio che molto probabilmente sarebbe piaciuto a Theodore Sturgeon: un diverso accostabile a quelli di molte opere dello scrittore americano: inferiore e superiore a un tempo all’uomo medio, il normale Homo sapiens. Scarpelli ingigantisce per i suoi scopi narrativi i talenti di Piccolo e ne trasfigura le paure, le speranze, le tensioni irrisolte. I poteri precognitivi lo porteranno a partecipare a una missione esplorativa nello spazio, alla ricerca di nuovi pianeti abitabili; sull’astronave e sul pianeta che la spedizione raggiungerà, i poteri dell’immaginazione di Piccolo si riveleranno ai nostri occhi con maggior chiarezza che nelle allusive, fantasticheggianti pagine iniziali, dove a tratti il personaggio si illanguidisce nel bozzetto di uno “scemo del villaggio” da manuale. Riemerge, invece, in pieno rilievo, e con vigore lo scrittore ne tratteggia un ritratto dove la forza – la violenza, anzi – delle immagini evocate assume tangibilità materiale: Piccolo può dare corpo reale alle sue fantasie; assurge a rappresentazione dell’immaginazione umana che crea mondi, universi, e li plasma con le capacità della mente. E vi si rinchiude talvolta, specialmente in quell’agra stagione di mezzo che può rivelarsi l’adolescenza.

 
Theodore Sturgeon

 Di particolare vividezza sono le scene di sesso. Tutt’altro che invadenti o eccessive, ma scritte e collocate con senso della strategia della narrazione e con un’incisività che sola deriva dall’abilità di trasporre con precisione il reale in una metafora che è ancor più cruda. Vediamo il protagonista risvegliarsi allo stimolo sessuale senza esserne consapevole; tendere in modo inconsulto, bramoso, perfino brutale verso un qualcosa che desidera ma gli sfugge, che percepisce a un livello animale senza pervenire alla comprensione del fenomeno. Osserviamo la sua goffaggine che conduce al rifiuto; e ancor più lo precostituisce: in primo luogo nella sua mente. Lo vediamo far uso dei suoi poteri per piegare la realtà a questi suoi desideri: per costringere la realtà a conformarsi a qualcosa che egli può solo vagheggiare senza poter materializzare. Non vi riesce. Non subito, almeno. Più ci si addentra nel racconto e più i piani della realtà e dell’immaginazione di Piccolo si confondono; come quelli della storia narrata e della metafora rappresentata. Scarpelli non scioglie del tutto il nodo del racconto, ma certamente allenta la tensione con una conclusione dove il dolce e l’amaro – ancora – si confondono. O meglio si fondono. Abbandonare infine quell’età di mezzo che ci è appartenuta è forse inevitabile; altrettanto inevitabile è forse continuare a rimpiangerla, e serbarne una parte dentro di noi. Quale sia il dolce e quale l’amaro resta tutto da decidere.

Ah, il titolo. I coniglietti del titolo sono le “presenze” più inquietanti che aleggiano intorno al protagonista, che lui evoca; che lo osservano mettendolo in imbarazzo. Quegli occhi che tante volte ci siamo sentiti addosso anche quando non c’erano.

sabato 30 gennaio 2010

Manca all'appello

Mi piacerebbe molto che ci fosse un bel forum sulla fantascienza. Un forum che non si appoggiasse a grandi o piccoli siti, o grandi o piccoli editori; dove gli appassionati potessero "chiacchierare" informalmente tra loro. Un forum come è stato per me il newsgroup it.cultura.fantascienza; il luogo dove gli appassionati sbarcati in rete durante gli anni '90 si sono fatti le ossa in discussioni stimolanti, e che a confronto con un tempo oggi appare un po' negletto (per primo dal sottoscritto, allontanatosene da tempo). Un forum di lettori, senza autori né editori (o aspiranti addetti ai lavori in quelle o altre categorie). Anche negli altri ambiti in cui ho bazzicato in questi non pochi anni di presenza, dal fumetto alla letteratura di genere e non, ho potuto constatare come la presenza di addetti ai lavori qualsivoglia influenzi negativamente il sereno svolgersi delle discussioni - dove sereno non significa pacifico: possono esserci liti furibonde e pure essere sereno il dibattito. Sereno si intende libero da ogni condizionamento che non siano i gusti, le abilità dialettiche, le capacità analitiche dei lettori-forumisti: il conflitto di interessi non è pertinenza esclusiva del mondo politico.

Non mi risulta che un tale forum ci sia (se ci fosse e un'anima pia me lo segnalasse glie ne sarei grato). Mi piacerebbe vederlo nascere.

venerdì 29 gennaio 2010

Caravan - spedizione verso l'ignoto quotidiano


In questi decenni più recenti una realtà editoriale ha dominato il fumetto in edicola: è la Sergio Bonelli Editore. Nulla di strano, in questo: l'editore di Tex, Dylan Dog, Martin Mystère e innumerevoli altre testate ha sempre mostrato un rispetto per il lettore spesso del tutto sconosciuto altrove e una eccellente cura del prodotto. Con tutte le eccezioni che si possono dare, naturalmente; ma nel complesso la qualità media dei fumetti bonelliani - come albi e contenuto degli albi - è raramente avvicinata da altre realtà del prodotto seriale e da edicola, e quanto al livello di cura editoriale forse da nessuno.

La SBE rappresenta non solo per questo un mondo a sé. L'impressione che filtra verso il lettore è di un colosso immobile dove vigono leggi tutte sue. La seconda parte della precedente affermazione è probabilmente vera; laddove l'immobilità bonelliana è un mito mentale di chi non ne conosce la storia editoriale né il presente. Appare vero, però, che gli autori e i disegnatori debbano conquistarsi la possibilità di variare le "regole" con fatica. E sprezzo del pericolo :-).

La fantascienza abita di rado in casa Bonelli, e a parte l'ormai classico Nathan Never in genere capita che si intrufoli di soppiatto nelle storie di testate istituzionalmente dedicate ad altro. E' capitato anche a Tex.

Lo scorso anno è giunta in edicola una miniserie che sta infrangendo diverse di quelle regole, e che lascerebbe assai spiazzato anche un lettore purista di fantascienza: Caravan. Che Caravan sia fantascienza è ovvio; non potrebbe essere altro con quelle nuvole misteriose che sconvolgono la vita di una cittadina americana e di tutta la sua popolazione, prelevata - anzi sostanzialmente rapita - dall'esercito e gettata sulla strada in una sorta di esodo biblico verso il nulla. Tuttavia, il realismo estremo con il quale Michele Medda, l'autore di Caravan, ne scrive poi gli episodi appare in contrasto (e disorienta i lettori meno attenti e più fissati su un'idea di prevedibilità di genere e del fumetto seriale bonelliano) con i canoni della fantascienza. Semplicemente, Caravan usa le possibilità dello scarto logico offerto dalla modalità narrativa fantascientifica per analizzare il nostro presente, la nostra quotidianità, la nostra umanità: ciò che la miglior fantascienza fa da decenni. Medda lo fa a bassa intensità fantascientifica, ma con finezza analitica. La serie è giunta al momento all'ottavo dei dodici albi previsti.

Quanto segue è stato pubblicato su uBC: http://www.ubcfumetti.com/bonelli/?19518

Michele Medda, a destra, premiato a Lucca per Caravan
Di albo in albo, sin qui, l'autore di Caravan è venuto tessendo e ritessendo il materiale narrativo di cui si compone la serie. Ciascun albo ha progressivamente messo e rimesso a fuoco, precisato e dettagliato il senso complessivo della mini meddiana e definito i contorni dei personaggi, sia lavorando su quelli ricorrenti che attraverso le "monografie" rappresentate dai personaggi, per così dire, ospiti dei singoli albi.Si è venuto così a comporre un unicum narrativo. Il tessuto connettivo che ha permesso di operare in tal modo è stata la rappresentazione realistica della quotidianità. Il realismo non è ovviamente un quid novi neppure in ambito bonelliano: Giancarlo Berardi ne fa ampio e grandioso uso in Julia, e sin dagli anni '70 lo stesso Berardi in Ken Parker e Gino D'Antonio in molti racconti della Storia del West hanno sfoggiato un sostanziale realismo nel loro lavoro (per tacere di quello, fino all'iperrealismo della caricatura, con il quale Rino Albertarelli ha illustrato il west con i suoi Protagonisti). Ciò che in Caravan è bonellianamente inedito è la completa rinuncia all'eroe istituzionale. In quasi ogni testata bonelliana vi sono momenti narrativi o anche albi interi - anche serie globalmente intese, si diceva di Julia - nei quali l'eroe è presentato nella sua dimensione più umana e naturale, quotidiana. Nathan Never non è solo un futuribile poliziotto, ma anche un padre sollecito (e un po' assente) di cui conosciamo l'amore per i libri antichi e il tempo che fu; Dylan Dog ci mostra le sue mille umane debolezze; Martin Mystère, un amabile logorroico come è bello conoscerne, è banalmente afflitto dai problemi di spazio che gli pone la sua biblioteca sterminata; in Volto Nascosto Gianfranco Manfredi ha compiuto uno sforzo in gran parte riuscito di ricostruire un ambiente storico verosimile e verosimili attori per la serie. Perfino Tex ci si mostra a volte nella sua più estrema normalità di padre in apprensione per suo figlio. Ma per contro, come dichiara da subito la sua stessa apparenza grafica, perfino la realistica Julia incarna uno status eroico - ribadito dalla sua funzione di solutrice di problemi.Come anticipavo, il di più introdotto da Caravan è la soppressione di questo elemento caratterizzante di tutta la tradizione bonelliana (e della narrativa popolare e seriale): l'eroe. L'esservi riuscito mantenendo il senso complessivo di epos popolare è il merito della serie e del suo autore. Nel classico fumetto bonelliano ci viene mostrato il personaggio-eroe che vive momenti della propria quotidianità; in Caravan persone del tutto comuni vengono poste in condizioni estreme - vengono anzi sottoposte a situazioni estreme, senza trasformarsi per questo in eroi, introducendo dunque un topos ormai tradizionale, ma sin qui assente in casa SBE. Nella sua quotidianità l'eroe bonelliano (re)agisce in base alla propria "programmazione"; e così l'eroismo fragile ma infrangibile di Dylan Dog non viene mai meno e si riflette nei rari squarci di realismo puro della serie, nelle poche storie d'amore autentiche da lui vissute; né Tex deflette dal titanismo della sua figura se anche ci si mostra - genuinamente - come un padre accorato per il figlio o l'amico fraterno in pericolo. I personaggi di Caravan - che siano i Donati, Jolene, il sindaco Banks o un qualunque altro, come il motociclista finto-Easy Rider o l'anziano nativo del settimo episodio - non hanno nulla di istituzionalmente eroico, e le loro (re)azioni, nella quotidianità come anche nell'eccezionalità, coprono l'intera gamma di quelle contemplate dalla umana diversità. Da chi ci aspetteremmo virtù eroiche osserviamo mostrare una certa codardia (e poi la volta seguente comportarsi diversamente sorprendendoci di nuovo) e viceversa. Oppure, ancor più semplicemente tenere un atteggiamento che non si risolve né in un senso né nell'altro. Scopriamo che chi dovrebbe, sempre istituzionalmente, ricoprire un ruolo esemplare, di guida - chi sarebbe l'eroe classico - è invece una persona qualunque, come quelle che ci circondano in ufficio o sull'autobus. Che le sue debolezze non hanno nulla di grandioso e che quando cade, cade abbastanza meschinamente. O meglio: umanamente. Scopriamo che è come noi, ha le nostre piccole paure e compie i piccoli atti di vigliaccheria che anche per noi sono a volte inevitabili; ma come noi si riscatta in piccoli e meno piccoli gesti di generosità o coraggio. Padri e madri, mariti e mogli, sbagliano in modi che sono naturalmente drammatici ma non hanno nulla di narrativamente drammatico come siamo stati abituati a vedere per esempio in Nathan Never. Davanti ai nostri occhi, disposti in osservazione riflessiva, si dispiega insomma quanto nel normale fluire della nostra esistenza osserviamo inavvertitamente. Compreso il fatto che in giro ci sono anche bastardi autentici.

Non c'è l'epica ciclopica degli eroi, in Caravan, ma molto più dimessamente il racconto dell'epopea di una (e di ogni?) comunità, analizzata allo sguardo ravvicinato su gruppi o individui di essa. Momenti apicali di questa strategia stilistica sono quelle sequenze legate a episodi della memoria dei personaggi, o della loro memoria familiare (si vedano in particolare, fino a ora, il sesto e l'ottavo albo), in grado di assumere un respiro narrativo ampio, storico. Ciò che rende particolarmente riuscito il ricordo della strage dei bambini di Gorla nell'ottavo albo non è la cruda e nuda forza del fatto in sé, ma la naturalezza con la quale Michele Medda lo ha incastonato nella storia della famiglia Donati; e l'altrettanta naturalezza con la quale lo ha fatto emergere nel racconto di Massimo Donati.
Il registro stilistico di Michele Medda non è naturalmente estraneo all'edificazione di questo impianto concettuale e alla sua traduzione in schema narrativo. Registro stilistico affinatosi nel tempo sulle pagine di Nathan Never e Dylan Dog in un progressivo lavoro di sempre più accentuato sfrondamento degli elementi di maggior effetto drammatico immediato in favore dell'individuazione di quelli che diano corpo a una narrazione dove la drammaticità emerge in tutta spontaneità dal piano svolgersi degli eventi. Con Caravan siamo apparentemente all'episodio estremo di questa ricerca, seppure ciò è avvenuto in modo inizialmente ambiguo.
Lo scatenamento dell'azione in puro ossequio alla tradizione, è infatti servito da innesco per uno sviluppo narrativo che subito dopo ha preso ben altra strada. Il mistero delle nuvole, quale che poi ne sarà lo scioglimento, ha messo in moto non tanto l'esodo odisseico di una cittadina americana e di tutti i suoi abitanti, quanto l'occhio della cinepresa che riprende per noi le accelerazioni e i rallentamenti della vita di una comunità umana, fino al dettaglio dei suoi singoli componenti, sottoposta a stress. Quello stress che sempre più è il pane quotidiano della nostra esistenza. A volte preciso nei suoi contorni, e materialmente: come può esserlo un soldato che imbraccia un mitra; oppure più vago e indistinto: ma ancora individuabile come una campagna che appare senza fine e senza presenze umane; o infine ignoto e incombente: come quello di fenomeni troppo lontani dalla nostra capacità di controllo (e conoscenza) quali delle bizzarre nuvole che appaiono in cielo e bloccano le comunicazioni (e quale terrore è più nostro, di noi inurbati e internettizzati uomini del XXI secolo, di quello di restare tagliati fuori dal magma comunicativo del nostro tempo?). I dialoghi, la ricerca delle inquadrature, la definizione psicologica dei personaggi sono tesi alla resa ottimale di questa tonalità media, soffusa nella coloritura e fittissima di senso nella trama, che l'autore lascia da decodificare al lettore che si faccia parte attiva e diligente: la letteratura di eroi impatta l'attenzione del lettore; quella che ne è priva necessita della volontà del lettore di entrare nei suoi meccanismi.


Questa temperie narrativa è precisamente riflessa nella composizione e nella "filosofia" delle copertine, realizzate con ariosa eleganza da un Emiliano Mammucari fin qui in stato di grazia; dove l'assenza di elementi che evocano l'azione eroica e di un protagonista che coaguli su di sé l'attenzione del lettore (le armi, la presenza quasi ineludibile dell'eroe, la rappresentazione della minaccia all'eroe o del nemico che lo minaccia) chiarifica l'architettura narrativa di Caravan sin da questo nitido biglietto di presentazione che il disegnatore va componendo.

martedì 26 gennaio 2010

Un cantico per Leibowitz: non dimenticate di acquistarlo. Anche se l'avete già :-)



Uno dei libri capitali della fantascienza americana, non può mancare nella biblioteca di chi ama la fantascienza.

domenica 17 gennaio 2010

Grazie, Ernesto


Ernesto Vegetti


Non ho mai avuto occasione di conoscerti personalmente, Ernesto, grazie di tutto. http://www.fantascienza.com/catalogo/

domenica 10 gennaio 2010

Futuri assai passati/passati assai futuri



Mi è capitato di recente, nel corso di una discussione online su un blog, di imbattermi in una di quelle deliziose affermazioni dogmatiche che con allegra spensieratezza ignorano gioiose la realtà storica; ovvero che la fantascienza, imprescindibilmente, si occuperebbe di e baserebbe sul futuro. Ovvio è che, essendo la sf la letteratura della possibilità, essa abbia come locus privilegiato l’immaginazione del nostro futuro; ma volendo porre la cosa come dogma imprescindibile (è questo l’errore) ci si consegna all’abbraccio mortale dell’allegra spensieratezza: la fantascienza, praticamente da quando è nata e si è riconosciuta come tale, si occupa non meno di riscrivere, reinventare e inventare tout court il passato. Questo è ancor più ovvio: se la sf ha una base, essa è certamente da rinvenire nel what if…, e inoltrare la propria immaginazione nel passato per riplasmarlo e piegarlo alla nostra volontà o al puro uzzolo è forse perfino più gustoso che non profetizzare il futuro (nostra volontà è ovviamente quella dello scrittore). Insomma, facciamo attenzione a non mutare una naturale preferenza in apodittica statuizione. Ucronia, storia alternativa e simili rientrano a pieno titolo nella sf, e pour cause.

Qui di seguito propongo una carrellata di romanzi che, da dogma, non sono fantascienza; ma che, curiosamente, da sempre gli appassionati e gli addetti ai lavori classificano per tale. L’ordine è cronologico tranne che per il primo, che in certo senso è una metaucronia e si pone a base teorica.

Al solito, si tratta di un elenco puramente indicativo, esistono molti altri eccellenti romanzi sull’argomento che ometto per ovvii motivi di spazio e per evitare troppe ripetizioni su un argomento.

La fine dell’Eternità (The end of Eternity, 1955)
di
Isaac Asimov (1920-1992)


Gli Eterni manipolano la Storia dell’uomo. Passato, presente, futuro: nulla rimane intentato perché lo sviluppo dell’umanità sia quello scolpito a chiare lettere nell’Eternità; o meglio quello continuamente riscritto e sovrascritto sull’Eternità, affinché la storia umana sia perfetta, asettica, controllata in ogni suo minimo dettaglio. Finché Anrew Harlan, un tecnico dell’Eternità - e l’amore - si metteranno di mezzo e incepperanno il ben oliato meccanismo. E il Destino tornerà libero nelle mani degli uomini.


L’abisso del passato (Lest darkness fall, 1939)
di
L. Sprague de Camp (1907-2000)



Il romanzo di de Camp è uno dei più venerabili classici del sub-genere variamente articolato su passati alternativi e simili. E classicissima è la situazione di partenza che vede un uomo del nostro tempo sbalzato improvvisamente nel passato. Qui, è la Roma dell’alto medioevo, ancora non genuinamente nell’Età di Mezzo, ma non più del tutto tardoimperiale: un ibrido dove la vita è sicuramente “interessante”. Per sopravvivere il protagonista dovrà ingegnarsi, e ingegnandosi cambiare le cose… l’avventuroso prevale, insieme alla grande maestria dell’autore nell’avvincere il lettore con intelligenza.


Anniversario fatale (Bring the jubilee, 1953)
di
Ward Moore (1903-1978)

Opera di uno degli scrittori in Italia più – ingiustamente – ignorati della fantascienza americana, questo romanzo è un purissimo esempio di what if. Cosa sarebbe successo se nel corso della Guerra Civile americana (comunemente nota come Guerra di Secessione) la battaglia di Gettysburg fosse andata – come in effetti avrebbe potuto – diversamente? Lo scoprirà McCormick, uno storico di professione che fa un viaggio temporale all’epoca della battaglia per compiere degli studi sul campo e, venendosi a creare una situazione incresciosa per la quale muta i destini dello scontro, crea una linea temporale in cui è stato il Nord a vincere la Guerra


La svastica sul sole (The man in the high castle, 1962)
di
Philip K. Dick (1928-1982)

Il romanzo è uno dei più celebri e celebrati di Dick, e gli valse l’unico premio Hugo ricevuto in carriera (vergogna per i votanti ai premi Hugo). E’ forse il testo più famoso di quel fiorentissimo segmento ucronico dedicato alla vittoria del Nazionalsocialismo nella II Guerra Mondiale. Dick, prevedibilmente, non si limita all’aspetto esteriore, ma scava a fondo nei meccanismi sociali e mentali che caratterizzano e sono indotti dal nazismo, intessendo il tema con quelli a lui cari della frantumazione del reale e della labilità della realtà stessa.


INRI (Behold the Man, 1966-69)
di
Michael Moorcock (n.1939)


INRI è il romanzo che Moorcock ricavò espandendo la sua novella del 1966 Ecce Homo. Per certi versi, è una meta storia alternativa come il romanzo asimoviano che apre la parata. Profondamente dissacrante nella forma – l’autore britannico non risparmia nessuna prevedibile presa per i fondelli della sacra famiglia della religione cristiana, compreso un Gesù mentalmente disabile – il romanzo (e la novella in precedenza) possiede però un poderoso nucleo filosofico che lo innalza ben al di sopra della satira ben fatta: qual è il senso del mito soteriologico del Messia? E più in generale, la realtà storica è davvero decisiva perché un mito abbia senso? Quando, insomma, Karl Glogauer, il pazzoide protagonista del romanzo, giunto dal nostro presente nella Palestina dei tempi di Pilato, ossessionato dal suo complesso messianico prende il posto del Gesù “reale” e ripercorre passo per passo, per quanto è nella sua memoria, la vita del Gesù dei vangeli, il lascito mitico e dottrinario del cristianesimo perde di significato perché Karl non smette di essere lo psicotico che è neppure quando arriva fino in fondo, assumendo su di sé anche il calvario?


Pavana (Pavane, 1968)
di
Keith Roberts (1935-2000)

 Con l’eleganza formale e lo stile raffinato fino all’occasionale lirismo che gli sono proprii, lo scrittore britannico costruisce ex novo in Pavana la storia europea e mondiale dal XVII secolo in avanti, a partire dalla caduta dell’Inghilterra elisabettiana nelle mani della Spagna di Filippo II. Lo scenario da brivido (se non da incubo) che Roberts illustra con dovizia di analisi e spassionato “realismo” appare non tanto come un esercizio di immaginoso stile, ma un monito a fare attenzione a ciò che ancora può accadere. Scritto al ritmo solenne di una pavana (http://it.wikipedia.org/wiki/Pavana).


Aquiliade (The Aquiliad, 1983)
di
Somtow Sucharitkul (n.1952)

 Si può anche buttarla in pochade, naturalmente. Aquiliade (si tratta del primo romanzo di una serie, della quale in Italia si sono visti i primi due atti) narra del povero Tito Papiniano, aristocratico romano un po’ decaduto che si trova sbattuto dal suo signore e imperatore nel più lontano e bizzarro avamposto dell’Impero, la Lacotia: l’America insomma. Perché e percome gli antichi romani siano giunti nel continente oltre l’Atlantico verrà rivelato in seguito. Nel frattempo al buon Papiniano accadrà ogni genere di stramba avventura e sarà tiranneggiato da figure improbabili come il saggio nativo Aquila e la sua assurda moglie Oenothea. Non inganni il nome dell’autore, originario della Thailandia è comunque in tutto e per tutto uno scrittore di fantascienza a stelle e strisce.


Basil Argyros, agente dell’Impero di Bisanzio (Agent of Byzantium, 1994)
di
Harry Turtledove (n.1949)


Dal maestro di storia alternativa della fantascienza contemporanea abbiamo una deliziosa antologia di racconti su una Bisanzio che non ha mai dovuto fronteggiare le armi arabe e, dopo secoli e nei secoli dei secoli, continua a farsi la forca con la Persia, eredità del conflitto che già oppose gli iranici ai romani. Basil Argyros è un agente segreto della potenza greca, e Turtledove gli costruisce attorno uno scenario che rende perfettamente verosimile la sua narrazione di… spy story molto alternativa.


Il nostro agente in Giudea, 2000
di
Franco Mimmi (n.1942)

 Ufficialmente, questo romanzo è un giallo, e non a caso ha anche vinto il premo intitolato al principe degli scrittori italiani del genere, Giorgio Scerbanenco. Ed è un signor romanzo giallo, en passant. Ma giudicate se non rientri legittimamente, sebbene solo tangenzialmente, in questo elenco: lo scenario è quello storico dell’Impero Romano regnante Tiberio; gli attori, quelli storici dell’epoca, compreso il Gesù narratoci nei Vangeli. La povertà di notizie certe in merito consente a Mimmi di elaborare una trama dove sviluppa con ricchezza analitica l’ipotesi di un complotto di grandi potentati affinché la storia di Gesù approdi esattamente agli esiti noti dai testi dei Vangeli… e dunque atti a sviluppare una dottrina che predicando la mitezza dei cuori e la speranza in una vita futura è di fatto utilissima alle strutture di potere di ogni tempo e luogo.


La parte dell’altro (La part de l’autre, 2001)
di
Éric-Emmanuel Schmitt (n.1960)

 In un raffinato alternarsi, come in un gioco di specchi, della storia dell’Adolf Hitler che conosciamo e di un Adolf che è invece stato ammesso all’Accademia delle Belle Arti di Vienna, Schmitt demistifica con rara intelligenza la mistica dell’orrore disumano del personaggio Hitler per consegnarlo a un orrore molto più concreto, autentico, umano. E in definitiva molto più terribile. La crudeltà è dentro ciascuno di noi, e sta a noi non farcene travolgere; né cercare giustificazioni esterne alla normalità, alla banalità della nostra natura umana, per quello che riusciamo a fare, con noncuranza, ai nostri simili.


Gli anni del riso e del sale (The years of rice and salt, 2002)
di
Kim Stanley Robinson (n.1952)

 La Grande Peste del XIV secolo non si è limitata far fuori una parte rilevante della popolazione europea e ha invece spazzato via la civiltà del continente con praticamente tutti suoi abitanti. La cultura islamica (che già allora mostrava qualche segno di involuzione) si espande naturalmente, e con essa la zona di influenza del buddhismo. Robinson, autore pressoché ignorato da quella provinciale editoria che è l’editoria fantascientifica italica, descrive il sorgere e tramontare di nazioni, popoli e culture mai nate, e nel suo ciclopico affresco, come è naturale per uno scrittore complesso e mai banale quale è, indaga con grande cura i temi più importanti del vivere dell’uomo e della sua storia.

[fantascienza] Il classico – Il matrimonio perfetto (A perfect marriage - 1965) di André Carneiro (n.1922)




Ah, le donne! Così può riassumersi il senso di questo racconto volendo giungere a una suprema sintesi. E prima di essere azzannato alla gola (o di far azzannare l’incolpevole Carneiro) mi affretto a spiegare: nessuna satira misogina o antifemminista nell’esclamazione riassuntiva. O meglio, è sicuramente presente, come ugualmente presenti sono elementi di satira antimaschilista (e antimaschile), di satira sociale, di divertita presa in giro delle convenzioni – anche le meno scontate e avvertite – e del conformismo. Per farla breve, l’esclamazione è al femminile perché il protagonista dalla cui prospettiva osserviamo gli eventi (e l’autore del racconto…) è un uomo; ma avrei potuto scrivere benissimo anche Ah, gli uomini!, o ancora meglio Ah, gli esseri umani!. Se non l’ho fatto è perché non hanno la stessa forza d’impatto ;-).

Echi sheckleyani attraversano non a caso le pagine della breve storia, certamente in uno stile più rilassato e “morbido” di quello al quale l’autore americano ha abituato i lettori; se Robert Sheckley graffia e lacera per affondare urticando la sua satira nel tessuto vivo delle ipocrisie sociali, Carneiro incide antalgicamente e discosta i lembi della ferita: per affondare urticando la sua satira nel tessuto delle ipocrisie sociali. Se, insomma, Sheckley fa uso della ferocia e ghigna, Carneiro distende più le labbra nel sorriso di chi la sa lunga e paternamente, benignamente comprende. Forse, per raggiungere la stessa incisività dello scrittore americano, Carneiro dovrebbe far meno affidamento sul buon senso e abbandonarsi con maggior convinzione all’abrasività satirica; la satira non ha nessun dovere di essere imparziale né sensata, ha un solo obbligo: essere efficace (e sovversiva). Non voglio dire con questo che il racconto di Carneiro sia inefficace. Tutt’altro. E neppure che il progressivo trapasso da un impianto satirico tout court al divertito e complice apologo sull’amore e la vita di coppia sia una banalizzazione. Tanto meno che la riflessione sviluppata da Carneiro sia meno profonda. Lo è di più, se mai: la satira per sua natura è beffarda e non ha riguardi per nulla e nessuno, ma inevitabilmente non si concede l’agio di un vaglio di completa accuratezza. Infatti racconti di Sheckley come Il catalogo delle mogli e Pellegrinaggio alla Terra sono certo più puntuti e diretti nella loro cattiveria – e il secondo raggiunge ferocia ed efferatezza autentiche – ma mancano di certe sottigliezze stilistiche, narrative e anche descrittive del racconto di Carneiro. L’impressione che si ricava dalla lettura è che egli si trattenga su toni oltremodo composti per un eccesso di comprensività e benignità, che si affidi troppo al buon senso e alla ragionevolezza, troppo perdendo in energia della narrazione. In un apologo del buon senso e della ragionevolezza, ciò può risultare effettivamente corretto, ma anche far perdere nettezza alla tesi. Per precisare ancora, il racconto è e resta una breve gemma per la finezza di analisi psicologica e sociale e la raffinatezza del soffuso umorismo dell’autore.

La storia è presto detta: Val-T ama A-Rubi, la sposa e vivranno per sempre felici e contenti. Certo, in mezzo succedono cose. Tipo che Val-T, ligio e timorato cittadino dell’irreggimentata società del futuro prossimo, va dall’infallibile super-computer, il Computer Centrale, che sceglie per lui A-Rubi. Oppure che il super-coso abbia scelto A-Rubi perché era stato sabotato dai terroristi nostalgici del passato. Il matrimonio perfetto, si rivela perciò meno tale di quanto Val-T si attendesse: lui e A-Rubi sono, su molte cose, decisamente meno compatibili di quanto egli fosse in diritto di immaginare. Ma su altre, si scoprono decisamente più compatibili. Alla fin fine, in mezzo a drammi, compromessi, abbandoni minacciati, divorzi incombenti e i parafernalia tutti di un felice rapporto di coppia, A-Rubi e Val-T scoprono il sottile, acuminato, perverso piacere di litigare. E riappacificarsi. In definitiva: confrontarsi e crescere assieme. Ancor più in definitiva, come conclude Carneiro, with a little help from Central Computer. Il racconto è tutto qui, o meglio è tutto nella leggerezza analitica con la quale lo scrittore ci mostra il lento, progressivo e inesorabile mutare, sotto l’influsso della compagna, del povero – pardon, fortunato – Val-T. Le sue naturali, e ragionevoli, resistenze; i suoi naturali, e ragionevoli, cedimenti. I naturali, e ragionevoli, punti dai quali non recede. Fa di nuovo capolino un pizzico di controllo di troppo, ma Carneiro è così abile e amabile nel far scorrere la narrazione che esso non disturba realmente; lascia solo quell’impressione di un tocco di vividezza in meno di quanto sia lecito attendersi da un racconto simile.


L’ambientazione fantascientifica del racconto non è gratuita. Se il tema centrale è senza dubbio quello suesposto, non è poi così vicaria la funzione vicaria che vi ha luogo del classico tema di denuncia del pericolo di spersonalizzazione dei rapporti tra gli esseri umani rappresentata dal prevalere di una civiltà fondata sulle Macchine. Se però il tema amoroso/di coppia è trattato da Carneiro con grande brillantezza d’ingegno, quest’ultimo è invece più scolastico e scontato, e riceve dalla tesi principale molto più di quanto non restituisca in termini di impatto narrativo.


André Carneiro è uno scrittore brasiliano, ben noto nel suo paese a quel che ho potuto appurare in rete. In Italia, assai prevedibilmente, di suo non è arrivato praticamente nulla. Anche la pubblicazione de Il matrimonio perfetto (del quale non sono riuscito a rintracciare il titolo originale in portoghese), è del resto il frutto non di una scelta precisa ma della sua presenza nel The Penguin World Omnibus of Science Fiction, eccellente antologia di autori provenienti dai paesi più disparati, curata nel 1986 da Brian Aldiss e Sam Lundwall e approdata in Italia per la Nord con il titolo Antologia internazionale di fantascienza. Un libro che vale la pena di recuperare: sia per il valore in sé di rapido (e necessariamente limitato) sguardo a una fantascienza altra da quella cui il lettore italiano è abituato; sia per la presenza di alcuni racconti che meritano davvero di essere conosciuti: lo splendido La leggenda dell’astronave di carta del giapponese Tetsuo Yano, o i non meno meritevoli I sei fiammiferi dei fratelli russi Arkadij e Boris Strugatskij e Quo vadis, Francisco? di Lino Aldani.