domenica 8 settembre 2013

Il classico – Resurrezione (The Monster - 1948) di Alfred E. van Vogt (1912-2000)



Gli itinerari che ci conducono a una lettura possono essere i più vari. Così Makkox: A. E. Van Vogt sfornava merda a rullo di rotativa, me lo ritrovavo sempre tra i coglioni, era una settimana sprecata l’urania di van vogt, ma insomma, ero ragazzino, non selezionavo molto, il mio tempo era infinito, mi mangiavo anche a. e. van vogt, scuotendo la testa, sputando i semi.  Lui ci metteva un sacco di mostri coi tentacoli e astronavi e cagate di cartapesta indigeribili così, nelle sue storie. Si può leggere tutto qui: http://makkox.it/2013/06/25/dopo-matheson/.  Makkox è un autore di fumetti che mi piace molto, le sue strisce raccontano con profonda e acuta visione analitica di quella geografia umana truffaldina e marcescente che è l’Italia di oggi, e di quel suo abitante antropologicamente deficitario che è l’Italiano di oggi (ma più probabilmente l’Italiano di sempre, che è colui che ha partorito, educato, conformato l’esemplare odierno). Però rientra tranquillamente nel ventaglio delle realtà possibili il fatto che Makkox, di fantascienza, non capisca una mazza. Come di fatto dimostrano le sue parole. Neppure a me è mai particolarmente piaciuto l’autore canadese; è tuttavia deprimente che si sia ancora così spesso fermi a quella visione tanto angusta, quel Cosmic Jerrybuilder (costruttore di scadenti trame cosmiche) con cui Damon Knight bollò van Vogt quasi settant’anni fa. L’anatema knightiano perseguitò a lungo van Vogt che, per riceverlo a sua volta, dovette attendere che allo stesso Knight venisse conferito prima di lui il massimo riconoscimento della carriera di un autore di fantascienza: il Grand Master Nebula Award, assegnato - solo dal 2003 con cadenza necessariamente annuale - dall’associazione degli scrittori americani di fantascienza e fantasy, la SFFWA (oggi Damon Knight Memorial Grand Master Award, per onorare in Knight il fondatore dell’associazione). Knight ricevette il titolo nel 1994; van Vogt nel 1995: a spanne, con un quindicennio di ritardo, e quando l’Alzheimer stava ormai aggredendo quella sua mente con la quale aveva sempre voluto indagare, narrare, ma più di ogni altra cosa sognare la complessità più misteriosa e impervia della realtà cosmica e di quella umana. Così Makkox mi ha stimolato a rileggere The Rull, uno di quei capolavori vanvogtiani con alieni cattivissimi e mostruosi e una guerra senza quartiere per il futuro dell’umanità, e oggi addirittura The Monster, un racconto programmatico sin dal titolo, dove ci sono appunto mostri tentacolati, astronavi potentissime e cagate di cartapesta indigeribili, per citare di nuovo il Nostro. A parte il fatto che il “Monster” del titolo non è alcuno dei tizi tentacolati ma è un qualcuno che, intuitivamente, è un essere umano del futuro.   

The Monster approda su Urania, nel fascicolo 1134 del 1990.
Quel Cosmic Jerrybuilder (e la sua ancor più colorita trasposizione makkoxiana) è deprimente non perché non sia vero – lo è: le trame di van Vogt sono per solito raffazzonate, confuse, caotiche e incoerenti, e la plausibilità in quello che scrive è generalmente assente. Anche se a volte ERA assente - al suo tempo – ma oggi può adombrare l’idea di un uomo la cui immaginazione (sbrigliata e libera ancorché confusa, caotica ecc.) fosse molto avanti: nella sua introduzione a Destinazione Universo, una delle moltissime antologie che hanno ospitato The monster, Sandro Pergameno scrive: Un altro punto fondamentale dei «contenuti» delle storie del Nostro sono le sue «mitologie scientifiche», cioè le scienze da lui create di volta in volta. Spesso van Vogt si rifà a teorie già esposte da alcuni pensatori e scienziati del nostro tempo, interpretandole tuttavia in maniera estremamente personale. Abbiamo così (…) e la de-differenziazione e totipotenza delle cellule del corpo umano che permette le imprese più pazzesche al protagonista di The beast. Noi viviamo oggi un tempo in cui si studiano le cellule staminali e si creano artificialmente cellule staminali pluripotenti, un tempo nel quale quella totipotenza ricordata da Pergameno verrebbe tranquillamente utilizzata da un Robert A. Heinlein redivivo più che da un van Vogt di nuovo tra noi: quell’Heinlein che correttamente Alexei Panshin, riportato qualche frase prima da Pergameno, definisce “antipodo” dell’autore canadese (sottinteso: il campione della fantascienza “razionale” contro quella “irrazionale” di AEvV).

Quel Cosmic Jerrybuilder è deprimente perché è così desolatamente superficiale.

1979: in Destinazione Universo per la Cosmo Oro della Nord.
Non è tanto e non è solo quanto affermava Philip K. Dick, che dello scrittore originario del Manitoba era un estimatore, e cioè che diversamente dagli autori più “razionali” di lui (massime, senza dubbio, il già citato Heinlein e Isaac Asimov) le trame sconclusionate e anarcoidi di van Vogt erano più vicine a rappresentare la vera realtà. Anche qui, naturalmente, si dovrebbe più correttamente parlare di percezione immediata della realtà: è a questa che è così maledettamente simile a volte la prosa vanvogtiana. La fascinazione di Dick per van Vogt appare naturale in questo senso, e non v’è dubbio che la sensazione di spaesamento che lasciano certe pagine di van Vogt sia la stessa che possiamo avere messi di fronte a certi accadimenti della vita. Ma non è soltanto questo. E neppure è solo quello che dice James Gunn, ancora una volta citato da Pergameno: Le storie di van Vogt non tentavano di presentare un ritratto razionale del mondo né di fare una consistente previsione scientifica del progresso futuro; esse trattavano i temi della fantascienza come se fossero stati temi favolistici. Non è soltanto la costruzione di un edificio mitologico, a un tempo modernissimo nel luccicare di astronavi tanto avveniristiche da apparire da subito impossibili e contemporaneamente così antico, eterno, nel risvegliare i demoni ancestrali della specie umana (e basti l’esempio di Coeurl, il “Distruttore Nero” del primo racconto di AEvV.

Poi ristampato nel 1995.
Oltre a quanto sopra vi è, sovrastante e sottostante mi viene da dire, la descrizione di un universo paranoide nel quale la paranoia umana trova linfa e legittima collocazione. A dispetto di quanto ancora affermava Knight, che le psicologie dei personaggi di van Vogt fossero di cartapesta (e ancora una volta è verissimo, in senso superficiale), è come se l’opera vanvogtiana fosse incentrata su quello specchio, deformante ma anche raffinatissimo, che è l’abito paranoico che attraversa la storia umana e che ritroviamo nelle grandi figure superomistiche della storia, nella propensione culturale alla guerra che interessa infinite culture umane, nelle strutture del potere interno di quelle stesse culture; che vediamo benissimo in atto ai nostri giorni: viviamo in società di cui non è difficile intravedere il collasso futuro causato dai costi – economici, umani, morali – delle strutture di potere edificate sulla paranoia. È tutto questo che Alfred van Vogt proietta nel futuro e negli altrove descritti nelle sue opere. Ma del resto, è la stessa psicologia di van Vogt che troviamo trasposta nella sua opera, permearla completamente. L’uomo che per oltre un decennio rimase intrappolato tra le maglie di un’organizzazione (mentale in primo luogo) paranoica come poche altre quale era la Dianetica dello stregone Hubbard, poi evolutasi nella Scientologia, è un uomo che vive un’ossessione per l’ordine interno e il controllo della propria mente, è una personalità infantile, paranoide, affascinata dal messianismo e dal superomismo. La sua intera opera è un diario intimo delle sue ossessioni, una poderosa proiezione all’esterno di un mondo fantastico e fantasticato interiore così sovrabbondante da tradursi in un elenco rigoglioso di romanzi e racconti, uno più improbabile dell’altro, e in genere uno la ripetizione (psicologica) dell’altro. I suoi personaggi hanno una psicologia di cartapesta perché essi, come anche ogni fenomeno e concetto delle sue opere, non sono altro che aspetti della sua psicologia, ed è il complesso della sua opera a manifestare la profondità psicologica: del proprio autore. Alfred E. van Vogt ha sempre raccontato se stesso e la sua psicologia estremamente complicata e liminare, e attraverso se stesso ha raccontato il disagio paranoico che percorre la storia umana.

Come Dalla cenere risorgerai, in appendice a Harrison nel 1962.
Per dare un’ultima volta torto a Damon Knight, non è che van Vogt fosse incapace di visualizzare una scena (e per l’ennesima volta questo è vero, a livello superficiale). È che lo scrittore canadese non scriveva per far visualizzare una scena al lettore (probabilmente non avrebbe davvero saputo come fare) ma per stimolare in lui sensi meno razionali. La prosa di van Vogt non è descrittiva, è evocativa. È indirizzata all’inconscio, non alla parte razionale della mente del lettore; e dell’inconscio va a sollecitare le paure infantili, stratificatesi negli anni quando la coscienza era appena in formazione o anche prima. L’indeterminatezza, la confusione, la non linearità sono tutte vettori privilegiati di questo movimento dalla pagina dello scrittore alla psiche del lettore. Sono quanto trasformano un autore obiettivamente non tra i più letterariamente dotati in un narratore eccezionale.

Un giovane AEvV
Sin qui non ho ancora parlato di The monster, il racconto di cui questa vorrebbe essere una recensione. In realtà l’ho fatto, perché questo è un racconto così tipicamente vanvogtiano, sin dal titolo come dicevo più sopra, che quanto detto lo descrive già perfettamente. La trama e i contenuti specifici del racconto, come spesso è per le opere di AEvV non sono poi così importanti – non rispetto al colore delle pagine, alle sensazioni che esse evocano. Dei mostri tentacolati, membri di una razza aliena molto potente – e molto cattiva - giungono su un pianeta completamente morto, intuitivamente la nostra Terra. Resuscitano in sequenza alcuni degli abitanti vissuti sul pianeta in varie epoche (sono alieni MOLTO potenti, quindi è del tutto NORMALE che riportino in vita, perfettamente coscienti e funzionanti, degli individui ridotti a ossa friabili da molti millenni). L’ultimo degli individui in questione ingaggerà con i tentacolati – che sono MOLTO cattivi, come si ricorderà - un confronto serrato di strategie psicologiche contrapposte, basato su (più o meno) misteriosi poteri mentali e tecnologie potentissime. Puro van Vogt, insomma. O per dirla con Makkox: cagate di cartapesta indigeribili. In questa cagata, però, vi è, perfettamente dispiegata in ogni pagina, in ogni parola, la paranoia che percorre tutta l’opera vanvogtiana, la paranoia che lo scrittore distillava dalla storia della nostra specie e dall’epoca in cui viveva, e che proiettava all’esterno di sé spedendola nei futuri immaginari nati dalla sua fantasia. Una fantasia tanto infantile quanto, appunto, poetica e onnipotente, in grado di dialogare con quanto di pre-conscio e di pre-adulto è in noi: e che spesso governa non poco dei nostri pensieri, emozioni e azioni. Nell’introduzione all’antologia Destinazione Universo, lo stesso van Vogt scriveva in questi termini del racconto: Non mi sono reso conto che Il mostro (The Monster) fosse un bel racconto finché non l’ho riletto sulla rivista. Si tratta di una storia con un finale ottimistico sul più remoto futuro dell’uomo e sulla sua grandezza. È un bel racconto, indubbiamente; non riesco però a  essere d’accordo con AEvV sul finale ottimistico: non trovo nulla di ottimistico nel trionfo di paranoia umana del finale del racconto. Però io non sono van Vogt e non ragiono con la sua testa.

Il fascicolo di Agosto 1948 di Astounding Science-Fiction
Pubblicato in origine sul numero di agosto del 1948 di Astounding Science Fiction, The Monster ha una lunga storia di pubblicazioni italiane, nel corso della quale si è incarnato in tre titoli diversi. Titoli, una volta tanto, tutti precisi e ben scelti. Il primo, Dalla cenere risorgerai, utilizzato per la sua prima pubblicazione, in appendice a un pionieristico volume della Cosmo Ponzoni del 1962 che presentava la prima edizione del Ratto d’Acciaio di Harry Harrison, non trovò fortuna nelle successive edizioni. Resurrezione, il titolo che personalmente preferisco, venne usato per la prima volta nel 1969 su Galassia, nell’antologia vanvogtiana Le storie delle lune e tornò in seguito nell’edizione su Urania di un’altra antologia dell’autore canadese, Creature (che curiosamente nell’originale si intitolava Monsters). Il titolo filologicamente più corretto, Il Mostro, apparve per la prima volta nel 1979 nella citata antologia Destinazione Universo, e da allora è stato usato molte altre volte.

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