domenica 28 luglio 2013

I classici – La sua mano (1970) di Luigi De Pascalis (n.1943)



Se non fosse per la sede di pubblicazione del racconto, ne si inizierebbe la lettura come quella di una storia marinaresca, nel solco della grande tradizione della letteratura d’avventura: La nave, il trealberi Argos della Compagnia di Guinea, salpò dal porto di Nantes alla fine di settembre del 1737, al comando del signor Couron. Mi ero imbarcato su di essa dieci giorni prima in qualità di chirurgo e medico di bordo; le ragioni che mi avevano spinto a preferire un simile ingaggio su una nave negriera piuttosto che esercitare la professione medica a Parigi, fanno parte di un’altra storia che, se oggi mi sembra banale e priva di consistenza, ebbe allora la forza di strapparmi a un tranquillo futuro.

Il racconto vira poi sui temi, le atmosfere, il linguaggio e le suggestioni visive dell’horror: Il sorriso sulle mie labbra si spense e un cupo presentimento mi assalì. Le ricerche continuarono in uno strano silenzio per più di un’ora, poi udimmo una voce piena di orrore provenire dalla gabbia dell’albero di maestra e tutti volgemmo con un solo movimento lo sguardo in aria. Un marinaio aveva trovato mastro Richard. Egli era lì, morto, con le mani ancora spasmodicamente contratte sulla ferita mortale che si era prodotta al cuore con il proprio coltello. 

Galassia n.113
Proseguirà a lungo così, in una misurata e sapiente progressione di immagini ed emozioni, rese vive e vivide dall’abilità evocativa, “pittorica” della penna di De Pascalis – non a caso anche illustratore grafico di talento: di lui si ricorda un Pinocchio a fumetti di grande fascino visivo e narrativo, ispirato al burattino collodiano. Una progressione di immagini angoscianti, sempre meno sottilmente, sempre più materiche e concrete, evocate e plasmate dalla capacità di provocare nel lettore un turbamento crescente appellandosi a paure ataviche, ancestrali, legate a un mondo sempre più lontano dai nostri tempi eppure ancora presente nelle stratificazioni culturali giunte a noi. La sterzata finale del racconto avverrà inoltrandosi nei territori di una fantascienza - a un tempo metafisica e in qualche modo vicina a tematiche, soluzioni e cliché dei suoi primordi - che giustifica in pieno la collocazione del racconto sulle pagine della prima delle antologie che Vittorio Curtoni, Gianfranco De Turris e Gianni Montanari (in rigoroso ordine alfabetico) dedicarono ai fermenti della fantascienza nostrana al tempo in cui Curtoni e Montanari presero il timone di Galassia. È dunque su una delle riviste che davvero hanno fatto la storia della fantascienza nel nostro paese che è apparso il racconto la prima volta. Finale del racconto che si inserisce con naturalezza nella sua trama e nelle sue atmosfere, mantenendo inalterato il fraseggiare visivo e grafico della storia e le sue ricche atmosfere orrorifiche. Il talento di Luigi De Pascalis risiede senza dubbio anche in questa naturalezza con la quale mescola le carte, ricomponendole in una narrazione che si presenta unitaria nel contemperare i suoi vari aspetti. 

Una tavola del "Pinocchio" disegnato da De Pascalis
Talento poliedrico e vero, Luigi De Pascalis è un veterano della letteratura fantastica e non solo, uno di quegli scrittori che restano nascosti agli occhi dei più, in favore spesso di scrittori molto meno dotati. In una carriera lunga ormai quasi cinquant’anni ha prodotto un corpus narrativo di tutto rispetto e impreziosito da prove notevoli. Come già è questo racconto giovanile, che nel solco di una tradizione consolidata mostra una padronanza sicura degli strumenti professionali dello scrittore di genere (e non solo), usati in modo tutt’altro che pedissequo e di maniera, e anzi nell’ottica di una ricercatezza stilistica posta al servizio del finale del racconto, sorta di riflessione metafisica sul destino e la sua mutevolezza, sull’insensatezza della ricerca della conoscenza non sorretta dalla tensione etica e sulla fallacia della superbia dell’uomo che crede di poter conoscere ogni cosa. E non soltanto. Temi ricorrenti, eterni: ma proprio per questo, saperne parlare senza annoiare, rendendo anzi il lettore partecipe e interessato a quanto si scrive, dà prova del mestiere e della qualità letteraria di uno scrittore. Farlo attraverso un racconto tanto classico nell’impostazione, nelle situazioni descritte, nei personaggi utilizzati, è un’ulteriore prova dell’abilità nel far uso di ogni risorsa della grande tradizione per presentare un proprio discorso personale – seppure su argomenti non meno classici e già mille e mille altre volte affrontati nella storia dell’uomo e della sua letteratura.

L'ultimo romanzo di fantascienza dell'autore, sequel di un racconto apparso nell'antologia "Sul filo del rasoio" (http://olivavincenzo.blogspot.it/2013/07/i-contemporanei-extraci-2010-di-massimo.html)
Lo spunto per il racconto, a quanto scrivono i tre antologisti presentandolo, è tratto da un fatto storico: una nave di nome Argos esistette davvero, salpò effettivamente da Nantes nel 1737 e a quanto riportano le cronache fu teatro di un ammutinamento; del pari, i nomi dei suoi ufficiali risulterebbero quelli usati dall’autore. La storia è tra gli interessi di De Pascalis che all’attività di narratore, anche di romanzi storici, ha affiancato quella di saggista; e che tra le pieghe della storia è andato in questo caso a trovare materia per la costruzione di un’elaborazione fantastica a partire dal quotidiano. Egli parte dal glorioso racconto marinaresco, e dalla realistica descrizione di quell’infamia che fu la tratta degli schiavi dall’Africa verso le Americhe, un commercio che fu attività tra le tante possibili per gli uomini del tempo, professione normale, come è sempre per la crudeltà estrema verso i propri simili, che l’uomo può compiere solo disconoscendo la natura umana dell’altro e derubricando le proprie azioni a compimento di pratiche di una banale burocrazia. Qualche anno dopo la pubblicazione di questo racconto il tema della tratta degli africani entrò con forza nell’immaginario più diffuso e mediatico attraverso il grande successo della serie televisiva Radici, adattamento della poderosa epica popolare del romanzo omonimo scritto da Alex Haley. L’abilità visuale di De Pascalis pare quasi anticipare le scene della serie tv ambientate sulla nave che porterà Kunta Kinte dalla sua terra d’origine a quell’America dove secoli più tardi nascerà il suo discendente e cantore del suo destino. Certo, in Radici non vi era l’inquietante presenza del colossale nero che è al centro della narrazione de La sua mano, ma l’orrore umano è il medesimo, e la penna di De Pascalis lo rappresenta con icastica efficacia: il capitano Couron assume facilmente le sembianze del grande Ed Asner che interpreta il comandante della nave che porta il giovane Kunta in America.

Rosso Velabro, primo di una trilogia di romanzi ambientati nella Roma della seconda dinastia Flavia. Qui nella sua nuova edizione per La Lepre.
Poi l’orrore lascia la sua dimensione più prosaica e “rassicurante”, pur senza mai abbandonarla, e si inoltra nei territori dell’anima. A onta della fisicità descrittiva dell’autore, le paure dei protagonisti e delle comparse del racconto dinnanzi agli accadimenti sempre più misteriosi e terrorizzanti è la chiara manifestazione dei loro sensi di colpa, così come l’epilogo degli eventi è il suicidio spirituale al quale essi si condannano per quelle colpe. In questo senso il deus ex machina degli eventi, il gigante nero sul quale si sbizzarrisce il talento visuale dell’autore, altro non è che la materializzazione dei sensi di colpa, il fattore esterno a noi che tanto frequentemente e spesso senza frutto utilizziamo per non finire schiacciati da essi. 

L'ultima edizione del racconto.
Certamente nulla di nuovo, ma proprio per questo risalta la capacità dello scrittore di affascinare con temi tanto ricorrenti e abusati. Se la conclusione del racconto approda infine sui lidi della fantascienza è, io credo, per una sorta di pessimismo cosmico. La crudeltà e la sopraffazione non sono esclusive dell’uomo, sono connaturate all’ordine cosmico, parte della natura. L’uomo è soltanto una delle pedine del gioco di questa natura e di questo cosmo, talvolta attore e talvolta vittima. Sempre e comunque parte del meccanismo. Forse un altro modo per porre all’esterno di noi stessi la responsabilità della nostra crudeltà, una chiamata a correo dell’intero universo che, in ultima analisi, conduce a una disperazione ancora maggiore. Al di là delle letture e delle interpretazioni che se ne possono dare, La sua mano è una gemma che attraversa i vari generi letterarii per raccontare in primo luogo una storia coinvolgente dalla prima all’ultima pagina. È un peccato che un così bel racconto non mi risulti più ristampato da oltre trent’anni, dalla sua pubblicazione nel quarto volume della mondadoriana Biblioteca di Fantasy&Horror.   


sabato 27 luglio 2013

I contemporanei – Extraci (2010) di Massimo Mongai (n.1950)



Quando tre mesi dopo la Grande Rivolta iniziò a scemare, almeno in Italia, Roma e tutto il Lazio settentrionale erano in mano agli extraci. Le vittime ammontavano a oltre tre milioni e i profughi, fra Cittadini ed extraci, a quindici.
Ma, come si vide poi, quello era solo l’inizio.
Questa è la fine, ma era iniziato in tutt’altro modo.
Cos’è la benzina, effendi? – Chiese Kuba, l’ausiliare extraci.  
Così era iniziato. Un incipit semplice ed essenziale, che lasciava presagire un racconto sull’ecologia, sui problemi energetici; o che magari narrasse di grandi multinazionali o di storia (storia da un’ottica dell’epoca nella quale è ambientato il racconto, verso la fine del secolo attuale). Verosimilmente, un racconto narrato con il – o quanto meno venato del - tono umoristico di quel Memorie di un cuoco d’astronave che è stato il romanzo d’esordio di Massimo Mongai e che è divenuto a piena ragione un genuino classico della fantascienza. Mongai offre invece una parabola assai amara sul futuro del nostro paese. Una parabola possibile, se non probabile. Indubbiamente una parabola verosimile. Una parabola di pura fantascienza, a onta della collocazione del racconto in un’antologia curata per il Supergiallo Mondadori da Gianfranco De Turris (Sul Filo del rasoio – Estate Gialla 2010). De Turris scrive nella prefazione come la decisione di pubblicare tale antologia di racconti gialli di fantascienza nell’ambito della collana Supergiallo e non su Urania, dove pure avrebbe potuto uscire a pieno diritto, fosse stata dettata dall’intenzione di far aprire a nuovi orizzonti i lettori abituali del giallo che sarebbero usi (secondo De Turris) leggere esclusivamente opere del genere da loro prediletto. È probabile che la motivazione reale sia molto più terra terra: verosimilmente il Supergiallo garantiva vendite superiori. Sia come sia, il racconto di Mongai del giallo non ha praticamente nulla. Ci sono dei poliziotti, sì, e c’è un delitto in piena regola, sì; ma questo è tutto: nell’economia del racconto non sono centrali né il delitto, né la sua soluzione o il movente in senso specifico, né infine i tutori dell’ordine protagonisti della vicenda. Centrale è l’estrapolazione, base della narrativa di fantascienza: in questo caso estrapolazione sociale. Sia come sia, nuovamente, Extraci mostra ancora una volta come la fantascienza non sia propriamente un genere, ma una modalità letteraria passibile di essere attraversata dai generi e attraverso la quale si può fare narrativa a tutto tondo. Per citare Douglas Adams: la vita, l’universo e tutto quanto
Scabro racconto di cara, vecchia fantascienza sociologica, ancorché scritto con sensibilità umana e letteraria moderne e una chiara consapevolezza dei tempi, Extraci è una succinta ma attenta e spassionata analisi di alcuni fenomeni che negli ultimi decenni hanno interessato la nostra società, come le altre società occidentali; seppure Mongai non rinunci del tutto all’umorismo di cui è capace, facendone un uso limitato e con un registro assai inacidito dalla materia oggetto della sua riflessione. Extraci sta per extracomunitari, come non è difficile intuire da subito. Sebbene l’autore molto probabilmente pecchi di ottimismo nell’immaginare un’Italia (e un’Europa occidentale) ancora meta di grandi flussi migratori a qualche decennio nel nostro futuro, lo scenario che raffigura mantiene inalterata la sua capacità di rappresentazione di una società confusa, impaurita e incapace di comprendere, introiettare e infine governare i fenomeni causati dagli eventi che accadono al proprio esterno e al proprio interno. Una società esattamente come è quella in cui viviamo noi. Per questo non è difficile vedere nell’Italia del 2090 circa di Extraci la figlia legittima della nostra – vedere in effetti noi stessi.
L’Italia segmentata in caste di Extraci, suddivisa in Cittadini e non cittadini, in esseri umani di prima, seconda, terza classe e chissà quante altre (e l’essere extracomunitari non coincide con necessità assoluta con l’essere individui di serie B, C eccetera), appare una semplice proiezione matematicamente esatta di quella dei nostri giorni. Appare la continuazione del ritorno al passato che negli ultimi decenni viene propagandato per liberalizzazione, progresso, inevitabile smantellamento di strutture pubbliche che si vorrebbero parassitarie. Ma con il selvaggio drenaggio di ricchezza dalla disponibilità della popolazione verso poche mani private si sta attuando contemporaneamente – e conseguentemente – il ritorno a schemi e strutture sociali di molti decenni quando non secoli addietro. Non è difficile vedere come sin d’ora in molte nazioni del già quasi democratico occidente (e l’Italia è tra le prime in tal senso) si sia di fatto tornati a un’organizzazione sociale basata rigidamente sul censo, sulla chiusura delle classi detentrici del potere e sull’accesso alle medesime unicamente per cooptazione. Nella brevità di questo racconto, Massimo Mongai riesce con abilità a far sì che il lettore possa intuire questa struttura sociale dalle poche pennellate con cui la rappresenta. Ma ancor più vi riesce attraverso la psicologia dei suoi personaggi, perfettamente aderente a quell’Italia così come a questa nostra. Così come a ogni altra società, passata, presente e futura che sia, nella quale vi siano padroni, sgherri, e servi. Padroni inverecondi pieni di arroganza e paura; sgherri pieni di cattiveria e disposti a vendere ogni dignità per raccogliere le briciole delle tavole dei padroni; e servi – servi desiderosi di diventare padroni e disposti a fare i kapò e vendere l’anima, servi felici di essere servi, servi a volte inferociti.
Esattamente così sono i personaggi del racconto, con in più le stimmate di un’umanità reale e tangibile che rimanda ancor meglio al lettore l’idea della società in cui vivono – che è la stessa nostra società.
Il primo, divertentissimo romanzo di Mongai
Il capitano Franzini è un uomo vero; cosa diversa da un “vero uomo”. Non è, cioè, un esaltato, un uomo ideologicamente accecato o, peggio, psicotico. È un uomo come potremmo incontrarne sull’autobus o in fila alla posta. Un investigatore sagace e un uomo che non si fa offuscare il ragionamento dagli umanissimi pregiudizi che pure egli ha. Un uomo fondamentalmente retto, al di là dell’essere un tutore dell’ordine, e quindi incline a ubbidire a dei comandi prima che a compiere azioni dettate dalla giustizia. Un uomo che pone dei limiti di decenza alla sua appartenenza alle forze dell’ordine, e perciò inadatto a essere uno sgherro fino in fondo. Un uomo che con tutta la sua intelligenza investigativa si rivelerà un ingenuo.
Colpisce davvero che nell’economia di un racconto abbastanza breve un personaggio emerga a tutto tondo con tanta forza dalla pagina. Della vita privata, degli eventuali vizi o malattie di Franzini nulla sappiamo; però Massimo Mongai ce ne fa conoscere l’anima. Ugualmente, ben poco o nulla ci è dato sapere della vita privata del suo assistente Kuba, del quale Mongai ci fa però comprendere ancora una volta la personalità profonda: i sogni che motivano l’ausiliare extraci, le sue aspirazioni, la sua psicologia sono in tutto adatte e adattate alla società inflessibilmente castale descritta dall’autore: Kuba può sembrare un mero meccanismo letterario, ma basta scalfire la superficie per osservarne la complessità che Mongai ha sintetizzato in brevi ed efficaci schizzi qui e là. Osserviamo come l’abilità dell’autore stia nel suggerire al lettore la vera personalità dei personaggi con solo poche parole o lasciando che trapeli dalle impressioni di lettura che egli fornisce al lettore. L’anonimo Commissario Capo, ci viene anticipato nella sua natura di sgherro dal riflettere alle parole del suo sottoposto Franzini, e poi confermato dagli eventi successivi.
Autore poliedrico, Mongai ha scritto ottimi gialli.
Il resto sono note di raffinato colore: Barzigò e Pardi sono uomini politici tolti di peso dalla macchiettistica cronaca dei nostri quotidiani e tg, ma ancora una volta danno una sensazione di autenticità (che quasi mai appartiene a quelli che appaiono nei talk shaw); la Roma elefantesca che si protende sovrappopolata verso l’Appennino e straripa sul litorale dal nord di Ladispoli al sud di Torvajanica è più una profezia che ha il sapore della matematica che non di una scolastica esagerazione; e i ghetti di ogni genere che ne formano il reticolo urbano appaiono l’esplosione diffusa di tante realtà che la città osserva oggi e vive sulla propria pelle.
In un altro racconto dell’antologia, La centesima scimmia, non meno nero e disperante dello scritto di Mongai, Luigi De Pascalis scrive: (…) Relitti di una civiltà che ha perso l’occasione di essere migliore e si è trasformata in un formicaio in costante regresso: anzi in disfacimento, come un cadavere. È la stessa civiltà di Mongai, appunto, lo stesso formicaio popolato di relitti di un’umanità passata ma che non vuole passare, e che anzi prende il sopravvento, nel ciclico riprodursi del collasso della civiltà. Sono ucronie, speriamo che restino tali: potrebbe essere il ciclo finale.

domenica 21 luglio 2013

I contemporanei – Nel Deserto delle Cadillac, con i morti (On the Far Side of the Cadillac Desert with Dead Folks, 1989) di Joe R. Lansdale (n.1951)


È il 2002, la meravigliosa collana AvantPop di Fanucci è tra noi e presenta un’antologia di racconti di Joe R. Lansdale, Maneggiare con cura, che porta il solleticante sottotitolo “I migliori racconti di Joe R. Lansdale”. L’antologia nasce per il mercato italiano e contiene una nutrita selezione di racconti lansdaliani degli anni ’80 e ’90, tra i quali la breve novella premio Stoker On the Far Side of the Cadillac Desert with Dead Folks, che risulta qui alla sua quinta pubblicazione italiana.

Credo che Lansdale non abbia bisogno di presentazioni: poliedrico e fin troppo prolifico, lo scrittore americano è una delle penne più note e attive della grande letteratura popolare da circa un trentennio; e la sua produzione copre praticamente ogni genere, con forse una qualche maggior propensione per l’horror, declinato e ibridato in ogni variante. Fin troppo prolifico perché la mastodontica mole di pagine scritte da Lansdale nella sua vita ha talvolta preteso il prezzo di una scrittura, pur sempre piacevole e accattivante, che si fa di maniera e tende a essere stilisticamente ripetitiva. Un difetto veniale a fronte di storie che non mancano quasi mai di coinvolgere il lettore e suscitarne sì il raccapriccio o il disgusto, ma conditi da una tale dose di ironia, grottesco e assurdo da suscitarne ancor più il divertimento: al suo meglio, Lansdale ha una scrittura oltraggiosa, ma troppo divertente e divertita.

Il vero rischio è di gigioneggiare in eccesso, ed è un fatto che in questa breve novella Lansdale corteggi costantemente tale pericolo. È un fatto anche che la sua scrittura sia così flamboyant e caricaturalizzata da far allargare il sorriso alla lettura dei più estremi dettagli splatter, dei ripetuti e insistiti riferimenti scatologici, delle coloriture verbali da dialoghi di z-movies (nel senso sia di zombie movies che di film di serie z), del sesso mostrato a piene mani e in ogni sua variante. È la maestria di Lansdale con le parole a rendere non solo divertente, ma letterariamente raffinato, un materiale che in altre mani farebbe venire la nausea – dettata da noia e sazietà - dopo una riga. Per dire: la storia racconta di un cacciatore di taglie, Wayne, che è sulle tracce di una specie di orco colpevole di quasi ogni possibile delitto di natura sessuale, Calhoun. Nella seconda sequenza della novella Lansdale ci inquadra così Calhoun: The last bounty hunter had been the famous Pink Lady McGuire–one mean mama–three hundred pounds of rolling, ugly meat that carried a twelve-gauge Remington pump and a bad attitude. Story was, Calhoun jumped her from behind, cut her throat, and as a joke, fucked her before she bled to death. This not only proved to Wayne that Calhoun was a dangerous sonofabitch, it also proved he had bad taste. Per fornire una descrizione di Pop, il tipo che è stato una specie di padre putativo per il protagonista Wayne, si lancia invece in questa edificante narrazione: And he wanted a chance to do right by Pop. Pop had been like a father to him. When he was a kid and his mama was screwing the Mexicans across the border for the rent money, Pop would let him hang out in the yard and climb on the rusted cars and watch him fix the better ones, tune those babies so fine they purred like dick-whipped women.

When he was older, Pop would haul him to Galveston for the whores and out to the beach to take potshots at all the ugly, fucked-up critters swimming around in the Gulf. Sometimes he’d take him to Oklahoma for the Dead Roundup. It sure seemed to do the old fart good to whack those dead fuckers with a tire iron, smash their diseased brains so they’d lay down for good. And it was a challenge. ‘Cause if one of those dead buddies bit you, you could put your head between your legs and kiss your rosy ass goodbye. E così via. Non è da tutti riuscire a rendere brioso, discorsivo e leggero un tono così, una scrittura tanto lavorata per essere programmaticamente estremizzata. Non è sempre neppure da Lansdale, ma in questa novella sì, di sicuro. E ne risulta una piccola gemma.

Book of the Dead, dove fu pubbliacata in origine la novella
Premiato racconto horror, la novella è però indubbiamente anche fantascienza. Un purista all’estremo probabilmente la disconoscerebbe; tuttavia il panorama, fisico e spirituale, di un’America totalmente distopica, di uno scenario post-apocalittico (e della cui apocalisse oltre l’essenziale ben poco ci è detto), è quello di un futuro più o meno prossimo basato sulla caricatura estrema dei guasti della società coeva al racconto. È un panorama nel quale si agitano, con i suoi animali mutanti, i segni fisici di una scienza disumanizzata e fuoriuscita dal controllo dell’uomo; i fantasmi spirituali di questa scienza, tradottisi nella follia e nel distacco psicotico dall’umanità di Fratello Lazzaro, uno degli scienziati che hanno indubbiamente avuto parte nello scatenamento dell’apocalisse; gli individui umani che la scienza disumanizzata ha prodotto: i morti dementi che tornano in vita, per divorare i viventi – o per essere carne morta da irreggimentare da parte del primo messia pazzo e carismatico, come è appunto Fratello Lazzaro. Lansdale non darà un finale ottimistico o consolatorio: non ci sarà amore a redimere la ribellione contro il disordine costituito di Fratello Lazzaro, ci sarà solo morte. Del resto un mondo simile, un’umanità del genere, individui come Calhoun e anche lo stesso Wayne e la sfortunata Sorella Worth, la non morta che si ribellerà all’ordine costituito, non sono redimibili più di quanto lo siano Lazzaro e il suo ordine religioso di pazzoidi: Calhoun per motivi evidenti; Sorella Worth perché non è più un individuo autonomo, senza i frutti avvelenati di quel (dis)ordine al quale si è ribellata non potrebbe vivere: solo morire, conquistando una morte da donna libera. E Wayne perché, a ben vedere, è indifferente all’ordine e al disordine. È parte di quel genere di umanità che scivola nell’indifferenza e vi sguazza, Wayne, e si adatta a ogni nefandezza, contentandosi di essere – o reputarsi – migliore dei peggiori. Dei Calhoun. Non a caso Lansdale pone questa frase come introduzione della novella: a story of the Bad Guys and the Bad Guys: che è una frase a effetto, ma è anche una dichiarazione di intenti che rispetterà.

Horror Story n.3 della Garden Editoriale, prima pubblicazione italiana
Al di là della lettura metaforica, pienamente legittima, questa storia è pure, e forse di più, un’avventura avvincente. Un western futuribile, racconto di una desolazione prossima, quando l’apocalisse sarà avvenuta e gli uomini e le donne tenteranno ancora di dare una parvenza di ordine alle rovine del loro mondo. La storia di una caccia all’uomo, raccontata mille volte e popolata dai personaggi classici del genere: individui spregevoli che sanno però mantenere la parola data; il cacciatore di taglie, ambiguo e sfuggente, improvvisamente tenero e dal cuore tanto marcio quanto dolce; la pupa traviata, destinata inevitabilmente a una brutta fine. È una storia on the road, tipicamente a stelle e strisce, ambientata nei paesaggi più estremi di un’America dimenticata; soprattutto: di un’America futura dimenticata che è lo specchio e la profezia di quella attuale. Un’avventura che è un fuoco di fila: di situazioni bizzarre e adrenaliniche; di dialoghi scoppiettanti; di descrizioni esagerate e barocche. Lansdale ha una penna fiammeggiante, intrisa a prima vista del peggior maschilismo e di un gusto morboso per ogni dettaglio sgradevole. Ma è il primo a divertirsi per le sue esagerazioni, e tanto iperrealismo sarcastico contribuisce puntualmente a definire la natura letteraria di quanto scrive, a dare corpo a quella che, pur nerissima e attraversata da una beffarda coprolalia, è anche una fiaba. Della fiaba ha appunto la lettura metaforica e la natura avventurosa. Della fiaba moderna ha gli zombie.

La seconda pubblicazione italiana, presso Mondadori
Zombie e vampiri sono da anni moneta corrente in letteratura, fumetti, cinematografia – e moneta ormai fin troppo deteriorata dalle varianti fighettose che inquinano appunto schermi e librerie; al tempo in cui Lansdale scrisse On the Far Side of the Cadillac Desert with Dead Folks non era ancora avvenuta l’alluvione, tuttavia i morti viventi erano già saldi nell’immaginario - e nell’industria del divertimento. Nella nostra Italia, pochi anni prima, il genio visionario di Tiziano Sclavi aveva dato vita, nella profonda diversità delle personalità dei due autori, a qualcosa di molto simile nel primo albo di Dylan Dog, a oggi l’ultimo fumetto che sia diventato in Italia vero e proprio fenomeno di costume. Sclavi e Lansdale sono scrittori – e appaiono uomini – molto diversi, ma Xabaras (il nemico/padre di Dylan Dog) e Fratello Lazzaro hanno i loro punti di contatto e somiglianza.

On the Far Side of the Cadillac Desert with Dead Folks è dunque una storia ben inserita nello spirito dei suoi tempi. Elabora con consapevolezza e con distacco ironico un materiale contaminato e ibridato; pesca a piene mani nei generi della cultura popolare per trovarvi i personaggi tipici, farli muovere secondo schemi consolidati ma in scenari narrativi “moderni” e accattivanti; usa il linguaggio per giocare a scandalizzare il lettore e per conferire al racconto una dimensione grottesca e caricaturale che ne mitighi il contenuto di disperazione. Ed è un bel saggio di talento e virtuosismo, oltre che di smaliziata furbizia.

La breve novella è leggibile in inglese a questo indirizzo: http://web.archive.org/web/20020803155914/http://joerlansdale.com/stories.shtml

sabato 13 luglio 2013

È nata Urania Jumbo :-)

Non sono mai stato tenero con le porcate fatte da Urania negli ultimi anni (http://olivavincenzo.blogspot.it/search/label/traduzioni%20integrali); ma non ho nessun problema a gioire e parlar bene quando in redazione fanno qualcosa di buono. O addirittura ottimo come in questo caso. Sorvolando sulla grafica (ormai è quella e ce la teniamo), l'iniziativa degli Urania Jumbo non poteva partire meglio di così: The River of Gods è considerato il capolavoro di uno dei più grandi maestri della sf britannica contemporanea, Ian McDonald. Plaudiamo alla scritta in copertina che annuncia che si tratta di un'edizione integrale, e poichè Giuseppe Lippi è un uomo d'onore, la sua parola allarga e riscalda il cuore: dunque si può fare: si può tradurre integralmente un romanzo, e non è velleitario e antiprofessionale chiedere che lo si dichiari, come sproloquiava anni fa il direttore di Urania spalleggiato da tutti i compagnucci della parrocchietta fantascientifica italica nel tentativo patetico di accampare scuse per essere stato beccato a sforbiciare come neppure i Fruttero&Lucentini d'antan. Con la speranza che alla prossima uscita tutte queste splendide premesse non vadano a farsi benedire, spero che il volume venda benissimo, come meritano il volume stesso e l'iniziativa.